Discriminazione. Comportamento discriminatorio e non
Appare utile, preliminarmente, compiere una breve premessa per la ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
Com’è noto, la complessa materia in esame non è oggetto di regolazione nel solo ambito nazionale, ma ha ricevuto ampia e crescente attenzione anche nella legislazione sovranazionale.
Pur dovendosi necessariamente prendere avvio dagli artt. 3 e 10 della Costituzione repubblicana, dai quali si traggono i principi fondamentali riguardanti la pari dignità dei cittadini e la tutela degli
stranieri in senso lato, va ricordato che l’art. 14 della CEDU prevede il divieto di discriminazione, stabilendo che il godimento dei diritti e delle libertà ivi riconosciuti «deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni»; parametro, quest’ultimo, che è stato in più occasioni richiamato dalla Corte di Strasburgo come diritto alla non discriminazione.
L’elenco dei “fattori di protezione” di cui all’art. 14 cit., inoltre, ha carattere “aperto”, così come riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto di applicare l’art. 14 anche con riferimento ad ipotesi in cui i fattori da proteggere non comparivano espressamente nella norma in parola (quali, ad esempio, l’orientamento sessuale e l’identità di genere: Corte EDU, 16 settembre 2021, X c. Polonia, n. 20741/10, § 70).
Vanno poi ricordati gli artt. 20-23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – non a caso inseriti nel Capo III che si intitola “Uguaglianza” – e, fra questi, soprattutto l’art. 21, il quale vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali». E la versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede all’art. 10 che nella definizione e attuazione delle sue politiche «l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».
Ancora, con riferimento alle fonti, appare significativo ricordare che, secondo l’orientamento seguito dalla Corte di giustizia sin dalla sentenza Mangold (CGCE 22 novembre 2005, C144/04), quelli di cui si discute rappresentano principi generali di diritto dell’Unione europea, caratterizzati da un innegabile effetto di drittwirkung e, come tali, aventi efficacia diretta orizzontale, cioè ricognitivi di un diritto che può essere invocato anche nei rapporti tra privati.
Sul piano del diritto interno, non è senza significato l’orientamento della Corte costituzionale predicativo del principio secondo il quale «esiste un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione» tra i divieti di discriminazione prescritti dal diritto dell’Unione e i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nazionale (ordinanza n. 182 del 2020, punto 3.2. del Considerato in diritto); di tal che viene ritenuto suo indefettibile compito quello «di assicurare una tutela sistemica, e non frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una prospettiva di massima espansione delle garanzie» (Corte costituzionale, sentenza n. 54 del 2022, punto 10).
Questo inquadramento generale rappresenta la necessaria premessa per una corretta lettura della normativa nazionale di diretto interesse nel giudizio odierno, costituita principalmente dal d.lgs. n. 286 del 1998 (in particolare agli artt. 43 e 44), dal d.lgs. n. 215 del 2003 (che contiene all’art. 2 l’espressa definizione di discriminazione) e dall’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 che, nel dettare le norme processuali sulle controversie in tema di discriminazione, contiene anche significative disposizioni di carattere sostanziale.
L’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede, al comma 1, che «costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica», mentre il comma 2 contiene specificamente un elenco di atti discriminatori. Il successivo art. 44, ampiamente rimodellato da norme successive e oggi sostanzialmente rifluito nell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 (con significative aggiunte e modifiche), già prevedeva nel suo testo originario la possibilità di «ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria per domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti della discriminazione».
Il d.lgs. n. 215 del 2003, attuativo della direttiva 2000/43/CE, prevede, all’art. 2, una distinzione tra la discriminazione diretta e quella indiretta, fa salvo il disposto dell’art. 43, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 286 del 1998 e stabilisce, al comma 3, che sono considerate «come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo». L’art. 4 del d.lgs. n. 215 prevede, inoltre, che i giudizi civili avverso gli atti e i comportamenti discriminatori siano regolati dall’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, mentre il successivo art. 5 riconosce, in favore delle associazioni ed enti «inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione», la possibilità di agire nei casi discriminazione collettiva, «qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione».
Si deve invece all’art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 la specifica previsione in base alla quale, se il ricorrente «fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione». Norma, questa, che, nel riconoscere una forte valenza presuntiva agli elementi ivi indicati, realizza nei giudizi in questione un’agevolazione probatoria in favore dell’attore, mediante lo strumento di una parziale inversione dell’onere della prova (così la sentenza 28 marzo 2022, n. 9870).
Tanto premesso da un punto di vista normativo, le Sezioni Unite della Corte di legittimità, con l’ordinanza 30 marzo 2011, n. 7186, hanno affermato, in relazione all’azione di cui all’art. 44 del T.U. n. 286 del 1998, che il legislatore, al fine di garantire parità di trattamento e di vietare ingiustificate discriminazioni per ragioni di razza ed origine etnica, ha configurato una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell’ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo (si trattava, in quel caso, di un giudizio promosso per contrastare la decisione dell’amministrazione datrice di lavoro di escludere dalle procedure di stabilizzazione alcuni lavoratori extracomunitari perché privi del requisito della cittadinanza italiana).
Che il diritto a non essere discriminati si configuri come un diritto soggettivo assoluto era stato, peraltro, già affermato dalle medesime Sezioni Unite nella precedente ordinanza 15 febbraio 2011, n. 3670 (nella nota vicenda di illegittima revoca del c.d. bonus bebè disposto da un Comune che l’aveva in origine concesso solo alle famiglie con almeno un genitore italiano).
Deve poi essere menzionata, a ulteriore dimostrazione del necessario rigore ermeneutico riservato dalle Sezioni Unite della Corte al fenomeno delle discriminazioni, la sentenza 20 aprile 2016, n. 7951, la quale, enunciando il principio di diritto nell’interesse della legge, ha stabilito che la P.A. che inserisca nel bando di selezione dei volontari per i progetti del servizio civile nazionale il requisito della cittadinanza italiana pone in essere una discriminazione diretta per ragioni di nazionalità ai danni del cittadino straniero regolarmente residente in Italia, che può pertanto esercitare l’azione antidiscriminatoria di cui all’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998.
Analogamente, va rammentata la recente ordinanza 1° febbraio 2022, n. 3057, con la quale le Sezioni Unite hanno affermato che l’azione promossa contro un atto di una federazione sportiva che produce una discriminazione per motivi di nazionalità in relazione al tesseramento degli atleti, esula dalla giurisdizione amministrativa in ordine alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa di atti delle federazioni sportive, che si configurano come decisioni amministrative aventi rilevanza per l’ordinamento statale, ma rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 e dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, essendo finalizzata alla tutela di un diritto soggettivo della persona, qualificabile come diritto assoluto.
Corte di Cassazione Civile sentenza Sez. 3 n. 24686 del 2023