“Idiota”. Legittimo esercizio del diritto di critica
Nel caso di specie l’imputato aveva utilizzato nella pubblicazione dell’articolo il termine idiota con riferimento ad un agente della Polizia di Stato, e in tal guisa, comunicando con più persone, veniva imputato del reato di diffamazione per avere offeso la reputazione di un agente della Polizia di Stato che aveva esploso in aria il colpo di pistola per interrompere la fuga ed identificare gli autori di un delitto (per questi motivi, gli era contestata anche l’aggravante di aver commesso il fatto a mezzo internet ovvero con un mezzo di pubblicità e di aver recato offesa ad un rappresentante di un corpo amministrativo dello Stato, da identificarsi nella Polizia di Stato).
In tema di diffamazione, il requisito della continenza postula, invero, una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione – ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto non hanno adeguati equivalenti (Cass., Sez. 5, n. 31669 del 14/04/2015; Sez. 5, n. 11950 del 08/02/2005).
Ne consegue che l’ attribuzione ad un soggetto di un epiteto che appaia infamante costituisce un attacco alla persona, in quanto tale inammissibile e costituente reato, dovendosi però, contemporaneamente ammettere che il ricorso ad aggettivi o frasi anche aspri, ma atti a rispecchiare la assoluta gravità oggettiva della situazione in ipotesi verificata, non si risolve sempre e comunque in un argumentum ad hominem, in ragione della possibile funzionalità alla economia del concetto espresso.
Nel caso di specie, il giudice del merito ha ritenuto l’epiteto adoperato, non particolarmente aspro e pungente, non sproporzionato rispetto a quanto si era inteso rappresentare in relazione ad una situazione che, evidentemente, si prestava ad essere oggetto di una qualche critica presentando, comunque, degli aspetti suscettibili di essere ritenuti gravi.
La scriminante dell’esercizio del diritto di critica può invero, ritenersi pacificamente integrata a patto che l’offesa non si traduca in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo, ma sia contenuta nell’ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto.
Come giustamente affermato, “il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato” (Cass. n.15060 del 2011), ma al riguardo non va trascurato che non è ravvisabile una violazione di tale requisito per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio negativo di cui deve tenersi conto, anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene impiegato (Cass. n. 37397/2016; Cass. n. 31669/2015).
A tali univoche coordinate ermeneutiche si è attenuto il giudice di merito, che ha in buona sostanza affermato che è alquanto difficile sostenere che gli anzidetti limiti siano stati travalicati nel caso dì specie, in cui la gratuità dell’offesa sembra esclusa dalla stretta riferibilità (o attinenza) dell’epiteto offensivo all’articolo di giornale riportante l’accadimento oggetto di critica (sulla considerazione del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta ai fini dell’accertamento della continenza cfr. Cass. n. 4853 del 2016).
Ha invero osservato al riguardo il giudice del provvedimento impugnato, che, benchè espresso in maniera inurbana il commento dell’ indagato risponda all’esercizio legittimo del diritto di critica, emergendo già dall’articolo in commento elementi che potessero fare ipotizzare un eccessivo uso della forza da parte degli operanti, sproporzionato rispetto al reato commesso e soprattutto in rispetto alle condizioni di tempo e di luogo in cui è stato esploso il colpo d’arma da fuoco.
Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza 14/05/2020 n. 15089