L’infedeltà e l’adulterio nel matrimonio, per lungo tempo legati alla morale sociale, fondano le loro basi nella purezza della donna, e la sua astensione dal commettere atti definiti “impuri“, dal sesso all’erotismo. Un matrimonio solido trova le sue basi nell’onore e nelle virtù della donna, piuttosto che dell’uomo.
Nel dipinto “Susanna e i vecchioni”, si riscopre tale principio, poi ripreso da diversi artisti, che trae spunto da un passo del Libro di Daniele dell’Antico Testamento: Susanna, donna virtuosa e casta, sorpresa seminuda da due uomini anziani (i vecchioni) mentre fa il bagno, viene da questi intimidita con la minaccia che qualora la giovane ragazza non avesse appagato i loro desideri sessuali la avrebbero accusata di adulterio riferendo al marito di averla scoperta con un amante. Il rifiuto di Susanna ai due molestatori comporta l’accusa pubblica di adulterio e la condanna a morte mediante lapidazione, ma in suo arriva Daniele, futuro profeta, il quale dopo aver smascherato l’inganno restituisce la reputazione e l’onore alla donna.
L’adulterio viola uno tra i principali doveri tra i coniugi, ovvero il vincolo di fedeltà; l’infedeltà coniugale pur non avendo rilevanza penale, può, in alcuni casi, fondare l’addebito della separazione e del divorzio. Ciò si ricava dal dispositivo dell’art. 151, secondo comma, Codice civile: “Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio“.
La norma mette sulla stesso piano il “comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio” di entrambi i coniugi. Invero, la condizione di parità fra uomo e donna e l’eguaglianza dei coniugi nel matrimonio è stata frutto di una elaborata evoluzione giurisprudenziale, ed è passata attraverso una pronuncia dell’illegittimità costituzionale dell’art. 151, secondo comma, del Codice civile da parte della Corte Costituzionale nel 1968.
L’originario art. 151 del Codice civile stabilisce le cause ai fini della separazione personale dei coniugi, elencando fra esse, in primo luogo, l’adulterio; il secondo comma, tuttavia, esclude l’ammissibilità dell’azione per adulterio del marito quando non concorrano “circostanze tali che il fatto costituisca ingiuria grave alla moglie“. Ne deriva un diverso trattamento fatto all’adulterio del marito rispetto a quello commesso dalla moglie, la norma considera, infatti, l’adulterio del marito irrilevante a tal fine quando esso non sia accompagnato da circostanze che valgano a conferire al fatto il carattere di ingiuria grave alla moglie: così statuendo, la disposizione crea a vantaggio del marito una situazione di vero e proprio privilegio.
In tal senso la Corte Costituzionale con la sentenza 16 Dicembre 1968 n. 127 stabilisce che sulla base della norma “l‘infedeltà della moglie è sempre causa di separazione personale, l’infedeltà del marito, tranne il caso suddetto, è priva di sanzione: anche qui, dunque, come a proposito della disciplina penale dell’adulterio, il marito e la moglie vengono sottoposti a trattamento diverso, nonostante che ad entrambi la legge (art. 143 del Codice civile) imponga un eguale dovere di fedeltà”.
E ancora, né si può sostenere che il secondo comma dell’art. 151, con lo stabilire un regime eccezionale per il marito, deroghi all’eguaglianza fra i coniugi in funzione dell’unità familiare. La conclusione non sarebbe diversa se si volesse supporre che l’art. 151, nella parte qui presa in considerazione, tuteli non già il diritto alla fedeltà, ma l’onorabilità del coniuge, e se si ritenesse che, a questo fine, il legislatore si sia conformato ad un diverso apprezzamento sociale dell’adulterio del marito e di quello della moglie. La Costituzione, infatti, afferma il principio dell’eguaglianza anche “morale” dei coniugi, ed esprime in tale modo una diretta sua valutazione della pari dignità di entrambi, disponendo che a questa debbano ispirarsi le strutture giuridiche del matrimonio: di tal che lo Stato non può avallare o, addirittura, consolidare col presidio della legge (la quale, peraltro, contribuisce, essa stessa, in misura rilevante alla formazione della coscienza sociale) un costume che risulti incompatibile con i valori morali verso i quali la Carta costituzionale volle indirizzare la nostra società.
Corte Costituzionale Sentenza 16 Dicembre 1968 n. 127