Liquidazione del danno sotto forma di rendita vitalizia
Dispositivo dell’art. 2057 Codice Civile
Quando il danno alle persone ha carattere permanente la liquidazione può essere fatta dal giudice, tenuto conto delle condizioni delle parti e della natura del danno, sotto forma di una rendita vitalizia. In tal caso il giudice dispone le opportune cautele
La norma trova applicazione qualora il giudice di merito accerti l’esistenza di un danno alla persona di carattere permanente, e prevede la possibilità che la liquidazione di tale danno possa avvenire attraverso il meccanismo della rendita vitalizia. Quest’ultima costituisce una forma di risarcimento per equivalente (Cass., 13 gennaio 1993 n. 357), ed è fonte di un rapporto a esecuzione periodica, in cui la durata prevista è “componente essenziale dell’utilità alla quale è ordinato il rapporto“.
Ben si comprende la funzione di tale previsione se la si pone in relazione con il carattere permanente del danno: la liquidazione ex art. 2057 c.c. mira infatti a “realizzare una tendenziale corrispondenza fra permanenza del danno e permanenza del risarcimento“, configurando la liquidazione della rendita non come diritto della parte, ma come facoltà del giudice (Cass. 20.2.1958, n. 553; Cass., 24.5.1967, n. 1140), imponendogli al contempo di predisporre le opportune cautele.
Ne consegue che l’art. 2057 c.c., infatti, rimette al prudente apprezzamento del giudice la scelta della forma di liquidazione del danno permanente alla persona, perché capitale e rendita si equivalgono per l’ordinamento civilistico. Il giudice è dunque libero di optare ex officio per lo strumento di cui all’art. 2057 c.c., purché determini la rendita in modo tecnicamente corretto.
Qualora il danno sia stato liquidato in forma di rendita, dopo aver determinato la somma capitale, occorre tenerne distinte due diverse componenti: il coefficiente per la costituzione della rendita (ovvero il criterio di calcolo), e la durata della stessa. Il coefficiente di costituzione della rendita deve corrispondere all’età effettiva del danneggiato al momento del sinistro – ed avrà riferimento alla durata media della vita – calcolato sul presupposto che, secondo le statistiche mortuarie attuali, un ventenne ha una aspettativa di vita di sessant’anni, un quarantenne di quaranta ed un sessantenne di venti. Tuttavia, una volta determinato il capitale con riferimento alla durata media della vita, una volta detratti gli eventuali acconti versati prima della sentenza (che andranno rivalutati e detratti dal capitale stesso posto a base di calcolo della rendita), e una volta convertito tale capitale in rendita, il diritto a ricevere quest’ultima matura de die in diem, ed ogni rateo di rendita compensa il pregiudizio sofferto dalla vittima nel corrispondente arco di tempo.
Se dunque la vittima venisse a mancare ante tempus, con la sua morte cesserebbe il pregiudizio permanente e, cessando il pregiudizio, non sarebbe concepibile la ulteriore pretesa di continuare ad esigere un risarcimento.
L’universo del danno grave alla persona rappresenta (dovrebbe rappresentare) il terreno d’elezione per un risarcimento in forma di rendita – l’unico che consenta di considerare adeguatamente, sotto molteplici aspetti, tra cui quello dell’effettività della tutela e della giustizia della decisione – l’evoluzione diacronica della malattia (ovvero la sua guarigione, se possibile), così che l’antinomia tra l’astratta efficacia di tale strumento risarcitorio e la sua (mancata) applicazione in concreto appare segnata, in premessa, da una sorta di sostanziale quanto non giustificabile “diffidenza” nei suoi confronti.
Non costituisce presupposto ex lege per l’applicazione dell’art. 2057 c.c. l’istanza dell’avente diritto. La norma, difatti, ha configurato la liquidazione della rendita non come un diritto della parte, ma come una facoltà del giudice, il quale può provvedervi, anche in appello, in via autonoma – non integrando tale scelta gli estremi “della questione rilevabile d’ufficio” ex art. 101 comma 2 c.p.c., ma caratterizzandosi soltanto per una diversa determinazione della forma del risarcimento -. Pertanto, abbia o non abbia la parte chiesto la liquidazione della rendita, e quand’anche abbia espressamente dichiarato di rifiutare tale
forma di liquidazione, sarà sempre in facoltà del giudice provvedere in tal senso, con giudizio incensurabile in cassazione se non per illogicità della motivazione (nei limiti in cui la censura sia ancora consentita dall’art. 132 c.p.c., secondo quanto stabilito dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 8053 del 14) o per errore di diritto (Cass. 20.2.1958 n. 553, Cass. 7.3.1966 n. 658, Cass. 24.5.1967 n. 1140), come, ad esempio, allorché il calcolo della rendita non rispetti il disposto dell’art. 1223 c.c., oppure non si accompagni alle adeguate cautele prescritte dall’art. 2057 c.c.
Riparare il pregiudizio derivante da una grave lesione della salute attraverso la costituzione di una rendita quale forma privilegiata di risarcimento consente di cogliere appieno la proiezione diacronica di tutte le componenti del danno che, di giorno in giorno, il danneggiato avrebbe subito dal momento dell’evento in poi. Ne consegue che, ove venga (correttamente) adottata tale forma risarcitoria, il valore della rendita dovrà essere computato tenendo conto non delle concrete speranze di vita del danneggiato, bensì della vita media futura prevedibile secondo le tavole di mortalità elaborate dall’ISTAT, a nulla rilevando che, nel caso concreto, egli abbia speranza di sopravvivere solo per pochi anni, ovvero che non risulti oggettivamente possibile determinarne le speranze di sopravvivenza, qualora tale ridotta speranza di sopravvivenza sia conseguenza dell’illecito.
Perdono così fondamento le critiche circa una presunta immoralità di tale scelta, che si risolverebbe in un vantaggio del danneggiante, volta che, da un lato, e per definizione, risarcendo il danno biologico permanente (e il danno morale ad esso conseguente, se provato), si risarciscono per equivalente tutte le conseguenze dannose dell’illecito che il danneggiato sarà costretto a sopportare, giorno per giorno, sino alla fine della sua vita; dall’altro, allo spirare dell’esistenza, di danno biologico e morale del soggetto leso non è più dato discorrere.
In caso di morte precoce del danneggiato, occorre, pertanto, distinguere:
a) se la morte anticipata è stata causata dalle lesioni, il responsabile sarà chiamato a risarcire, oltre al danno biologico e morale, possibilmente in forma di rendita, subito dal danneggiato nel periodo di tempo compreso tra il sinistro e la morte, anche, ed onnicomprensivamente, il danno iure proprio subito dai genitori, in relazione alla ridotta aspettativa di vita ed al presumibile periodo di vita del minore;
b) se la morte non è stata causata dalle lesioni, il responsabile dovrà risarcire il danno biologico subito dal danneggiato valutato al tempo della commissione dell’illecito, oltre al danno da lesione del rapporto parentale in favore dei genitori.
Ne consegue che il responsabile, versando una somma periodica al danneggiato, non lucra alcuno “sconto” sul risarcimento, in quanto:
a) se la durata della vita del danneggiato è maggiore rispetto alla durata della vita media, sarà il danneggiato stesso a realizzare un lucro;
b) se la durata della vita del danneggiato sarà, in concreto o presumibilmente, inferiore alla durata della vita media, e ciò a causa delle lesioni, il responsabile sarà tenuto a risarcire il danno sotto forma di rendita – la cui base di calcolo si fonderà non sulla speranza di vita in concreto, bensì su quella media di un soggetto sano – oltre al danno parentale subito dai genitori in conseguenza dell’illecito;
c) se il danneggiato avrà una vita di durata inferiore alla media, ma ciò avviene per cause del tutto indipendenti dalle lesioni, il responsabile che cessa di pagare la rendita non realizza alcun “vantaggio” patrimoniale, poiché, il risarcimento cessa perché cessa il danno.
Emerge allora con tutta evidenza la non condivisibilità, in tema di risarcimento liquidato attraverso l’attribuzione di una rendita, delle considerazioni fondate su valutazioni di tipo morale di una tecnica risarcitoria. Se la storia recente della responsabilità civile ha indotto tanto la prevalente dottrina quanto la più attenta giurisprudenza (per tutte, Cass. 26301/2021) ad evidenziare non pochi punti di contatto tra etica e diritto, segnatamente in tema di danni alla persona, la simmetria di tale relazione trae linfa dall’applicazione delle cc.dd. clausole generali (il principio di correttezza, di equità, di buona fede, di diligenza) e dal costante riferimento al dettato costituzionale. Al di fuori del pur vasto territorio dei principi, specie costituzionali, non sembra legittimamente predicabile alcuna considerazione di “moralità” con riferimento a specifiche previsioni di legge, quando le forme del risarcimento rispondano tout court (come nel caso della rendita) a principi di effettività, di bilanciamento, di giustizia delle decisioni.
Quanto al profilo funzionale dell’istituto, va rammentato come la rendita vitalizia, prevista dall’art. 1872 c.c., sia un contratto aleatorio che da vita ad un rapporto di durata, la cui disciplina risulta essenzialmente unitaria, applicandosi ad ogni rendita vitalizia, comunque costituita, che non sia assoggettata dalla legge ad una disciplina speciale. La rendita costituita ex art. 2057 c.c. sarà, pertanto, disciplinata dagli artt. 1872 ss. c.c., con rilevanti conseguenze poste a tutela delle ragioni del creditore, in quanto: a) il debitore non può liberarsi dall’obbligazione offrendo i pagamento di un capitale (art. 1879, comma 1 c.c.); b) il debitore non può invocare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1879 c.c.); c) in caso di inadempimento del debitore, il creditore della rendita può far sequestrare e vendere i beni dell’obbligato (art. 1878 c.c.).
Tecnicamente, la costituzione di una rendita in favore del danneggiato può avvenire in vari modi, di tal che il giudice potrà, in alternativa alle “cautele” previste per legge (come la stipula di una polizza fideiussoria da parte dell’obbligato), disporre l’acquisto di titoli del debito pubblico in favore dell’avente diritto, ovvero la stipulazione, in suo favore, di una polizza sulla vita a premio unico ex art. 1882 c.c.
E’ stato opportunamente e condivisibilmente osservato come, nel caso di macroinvalidità (specie se comportino la perdita della capacità di intendere e di volere), in quello di lesioni subite da un minore per il quale una prognosi di sopravvivenza risulti estremamente difficoltosa se non impossibile, in quello di lesioni inferte a persone socialmente deboli o descolarizzate (richiedenti asilo, disabili mentali o anche semplicemente macrolesi i quali già prima del sinistro si trovassero in profondo conflitto con i familiari), ovvero ancora con riguardo alle qualità del debitore (una compagnia di assicurazione, piuttosto che un privato o una pubblica amministrazione), sussista il serio rischio che ingenti capitali erogati in favore del danneggiato possano andare colpevolmente o incolpevolmente dispersi, in tutto o in parte, per mala fede o per semplice inesperienza dei familiari del soggetto leso. In simili casi il giudice, valutando comparativamente i pro ed i contro del caso concreto, ben potrà, se non addirittura dovrà, privilegiare una liquidazione del danno in forma di rendita.
Deve ritenersi astrattamente ammissibile l’ipotesi di una revisione della rendita, oltre che di proposizione di una nuova e diacronica domanda risarcitoria in presenza di aggravamenti che non fossero accertabili né prevedibili al momento della pronuncia (sulla legittimità della nuova domanda in costanza di tali circostanze, Cass. 20 marzo 2017 n. 7038; 4 novembre 2014 n. 23425; 12 ottobre 2011 n. 20981; 31 maggio 2005 n. 11592). In particolare, con la sentenza di cui a Cass. 27 dicembre 2016 n. 27031, che ha esaminato funditus la questione, si è affermato che, ai fini dell’instaurazione di un nuovo giudizio, è necessario che la parte individui specificamente ” gli elementi idonei (…) a consentire la revisione della liquidazione del danno a causa di aggravamenti successivi e sopravvenuti alla formazione del giudicato “, che sono da ricondurre ” (a) ad un’obiettiva impossibilità di accertare, al momento della prima liquidazione, fattori attuali capaci, nell’ambito di una ragionevole previsione, di determinare l’aggravamento futuro; (b) all’impossibilità, ancora con riferimento alla prima liquidazione, di prevederne gli effetti; (c) all’insussistenza di un evento successivo avente efficacia concausale dell’aggravamento “. L’instaurazione di un
nuovo giudizio è quindi possibile, quando non si violino i principi del giudicato e del dedotto e deducibile, nelle ipotesi in cui la sentenza non abbia statuito su quel profilo nuovo di danno (e non sul suo prevedibile aggravamento), e le osservazioni e le pretese ad esso legate non avrebbero potuto essere dedotte all’interno del primo processo. Applicando tali principi alla rendita vitalizia, deve pertanto ammettersi la possibilità di una sua revisione nei limiti in cui è ammesso adire il giudice in ragione dell’insorgere di danni del tutto imprevedibili e non accertabili al momento del primo giudizio.
La liquidazione in forma di rendita non sarà, viceversa, in alcun modo opportuna nel caso in cui le lesioni siano di lieve o media entità, in quanto il relativo gettito sarebbe così esiguo da non arrecare alcuna sostanziale utilità al danneggiato.
Per concludere sul punto, va fatto brevemente cenno alle indicazioni contenute, sia pur de iure condendo, nei Principles of European Tort Law (PETL) e nel Draft Common Frame of Reference (DCFR).
Quanto ai primi, l’art. 10:102 prevede che “i danni sono liquidati in somma capitale o con pagamenti periodici quando ciò appaia più appropriato con particolare riguardo all’interesse del danneggiato” attribuendosi in tal modo al giudice la discrezionalità di liquidare il danno attraverso pagamenti periodici o tramite un’unica somma, ma poi specificandosi, significativamente, che i pagamenti periodici possono essere particolarmente utili in caso di danni permanenti, e che appare opportuno che la somma dovuta possa essere “adapted to a worsening or an improvement of the situation of the victim“.
Quanto al Draft Common Frame of Reference, l’art. 6:203 del capitolo 6, nel prevedere che “compensation is to be awarded as a lump sum un/ess a good reason requires periodicà payment ” stabilisce una regola più elastica, privilegiando, peraltro, la
liquidazione del danno attraverso una somma unica, mentre il risarcimento attraverso una somma periodica è prevista solo nel caso in cui vi sia una ” buona ragione ” che richieda la liquidazione attraverso la corresponsione periodica di una somma.
Corte di Cassazione civile sez. III – 25/10/2022, n. 31574