La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente alla natura dell’articolo 684 C.p. “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale” e la sua idoneità a fondare il risarcimento del danno.
E’ necessario stabilire: se la previsione della norma incriminatrice che blinda la divulgabilità degli atti del processo penale, integri o meno un reato plurioffensivo, in quanto preordinato a garanzia non solo dell’interesse dello Stato al retto funzionamento dell’attività giudiziaria, ma anche delle posizioni delle parti e, segnatamente, della reputazione delle stesse; se sia scrutinabile l’entità della riproduzione, si da potersi accedere a un giudizio di insignificanza del dato riportato e quindi di sostanziale inoffensività della condotta ascritta all’autore della pubblicazione.
L’art. 684 C.p., intitolato “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale“, punisce con l’arresto o con l’ammenda chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione.
L’elemento oggettivo del reato riceve peraltro concreta e attuale specificazione dagli artt. 114 e 329 C.p.P.
In particolare, la natura e l’ambito del divieto sono precisati dalla prima disposizione, la quale integra il precetto della norma penale stabilendo che è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto (comma 1); è vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare (comma 2); se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello (comma 3); è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto (comma 7).
Originariamente il terzo comma dell’art. 114 C.p.P. vietava altresì la pubblicazione “degli atti del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado“.
Sennonché la Corte costituzionale, con sentenza 24 febbraio 1995, n. 59, ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art. 76 della Costituzione, la relativa previsione. Ha ritenuto il giudice delle leggi che la disposizione, nella parte in cui non consentiva la pubblicazione degli atti del fascicolo del dibattimento anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado, fosse in contrasto con la direttiva n. 71 dell’art. 2 della legge di delega n. 81 del 1987, posto che la ratio dei divieti di pubblicazione ivi stabiliti, con il preciso intento di contemperare gli interessi della giustizia e gli interessi dell’informazione, entrambi costituzionalmente rilevanti, non permetteva di ritenerli estensibili agli atti dei fascicolo del pubblico ministero anche oltre il termine delle indagini, durante il dibattimento e che lo stesso divieto di pubblicazione degli atti del fascicolo del pubblico ministero, previsto esplicitamente nella direttiva con il riferimento agli “atti depositati a norma del numero 58“, inteso com’era, ad evitare che il giudice formasse il suo convincimento sulla base di atti che dovrebbero essergli ignoti, non poteva ragionevolmente riferirsi alla pubblicazione di quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, concernente, per definizione, gli atti che il giudice deve conoscere.
Ciò vuol dire che nel nostro ordinamento non vi è completa coincidenza tra regime di segretezza e regime di divulgazione e che esiste un doppio filtro alla pubblicazione degli atti: un divieto assoluto di pubblicazione, “anche parziale o per riassunto.., degli atti coperti dal segreto istruttorio o anche solo del loro contenuto“, operante, ex art. 329 C.p.P., fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari; e un divieto relativo, limitato ai soli elementi testuali, vigente fino al termine dell’udienza preliminare (comma due) e, se si procede a dibattimento, fino alla pronuncia in grado di appello (comma tre).
Orbene, mentre prima della conclusione delle indagini preliminari la ratio dell’art. 684 C.p. va rinvenuta nell’obiettivo di non compromettere il buon andamento del processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova, dopo tale momento la finalità della norma diventa quella di salvaguardare un principio cardine del processo accusatorio: la neutralità psicologica del giudicante (c.d. virgin mind).
Ne derica che è sempre consentita la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti (o non più coperti da segreto) a guisa d’informazione (art. 114 C.p.P., comma 7).
Si tratta a questo punto di stabilire se, accanto all’interesse dello Stato al corretto funzionamento dell’attività giudiziaria, l’art. 684 C.p. tuteli anche le parti in vario modo coinvolte nel processo, di talché, a prescindere dalla concorrenza o meno di una lesione della riservatezza o di una diffamazione ai loro danni, la commissione del reato le abiliti all’attivazione di un’autonoma pretesa risarcitoria fondata sul fatto in sé che vi sia stata pubblicazione arbitraria di atti di un processo penale che le riguardi.
In merito al carattere plurioffensivo o meno del reato di cui all’art. 684 C.p. si registrano nella giurisprudenza di legittimità due differenti orientamenti, di talché proprio in vista della composizione del contrasto si è ritenuto opportuno che sulla stessa si pronunciassero le sezioni unite.
Secondo un indirizzo, che sembra prevalente nella giurisprudenza civilistica, la fattispecie criminosa in esame “costituisce, pacificamente, reato plurioffensivo… in quanto diretto a tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al processo“, oltreché a garantire l’interesse dello Stato al retto funzionamento dell’attività giudiziaria.
Nella medesima prospettiva è la giurisprudenza delle sezioni penali, nonché quella della Corte costituzionale la quale ha a più riprese affermato il carattere plurioffensivo della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 684 C.p.
In senso contrario troviamo alcune sentenze sul versante civilistico (Cass. civ. 19 settembre 2014, n. 19746) e penalistico (Cass. pen. 17 marzo 1981, n.2320).
Tra i riferiti orientamenti, le Sezioni Unite ritengono che debba essere preferito quello che esclude il carattere plurioffensivo del reato di cui all’art. 684 C.p., conseguentemente negando la legittimazione del privato a far valere una pretesa risarcitoria in dipendenza della sola violazione della predetta norma, in assenza, cioè, di una concreta lesione alla sua reputazione e alla sua riservatezza. Chiave di volta di siffatto approdo esegetico è l’ultimo comma dell’art. 114 C.p.P., a tenor del quale “è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto“.
A ben vedere, infatti, consentendo che degli stessi si facciano sintesi o parafrasi che ne divulghino il contenuto, ma contestualmente negando la loro riproduzione testuale, il legislatore ha concesso al diritto di informare e allo speculare diritto a essere informati il massimo che poteva ragionevolmente permettere, la necessità di salvaguardare anche i principi del processo accusatorio, evitando che il modello prescelto, volto a garantire la formazione della prova in dibattimento, nei contradditorio di accusa e difesa, diventasse il vuoto simulacro di un rito che aveva recuperato per altre vie formule ritenute idonee a ingenerare pregiudizi nell’animo del giudicante.
Pertanto vanno enunciati i seguenti principi di diritto:
a) la fattispecie criminosa di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale di cui all’art. 684 C.p. integra un reato monoffensivo, posto che obiettivo della norma, prima della conclusione delle indagini preliminari, è quello di non compromettere il buon andamento delle stesse e, dopo tale momento, quello di salvaguardare i principi propri del processo accusatorio;
b) nessuna autonoma pretesa risarcitoria può essere avanzata dalla parte coinvolta nel processo perciò solo che sia stata violata la norma incriminatrice in discorso;
c) la portata della violazione, sotto il profilo della limitatezza e della marginalità della riproduzione testuale di un atto processuale, va apprezzata dal giudice di merito, in applicazione del principio della necessaria offensività della concreta condotta ascritta all’autore, nonché, sul piano civilistico, della irrisarcibilità del danno patrimoniale di lieve entità; la relativa valutazione è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.
Cassazione Civile Sent. Sez. U Num. 3727 Anno 2016
Cassazione Civile Sent. Sez. U Num. 15815 Anno 2016