Rapporti tra giudizio civile e giudizio penale
Preliminarmente giova premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento nel sistema dei rapporti tra giudizio civile e giudizio penale, nonché tra azione civile e poteri cognitivi del giudice penale.
Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale si è più volte rilevato (ex plurimis, sentenze n. 176 del 2019, n. 12 del 2016 e n. 217 del 2009) che, a differenza del sistema delineato nel codice del 1930 (ove l’assetto delle relazioni tra processo civile e processo penale era improntato ai principi di unitarietà della funzione giurisdizionale e di preminenza della giurisdizione penale), quello risultante dal codice in vigore è, al contrario, informato ai diversi principi dell’autonomia e della separazione.
Infatti, nell’ipotesi in cui l’azione civile per le restituzioni o il risarcimento venga esercitata nella sua sede propria (quella del giudizio civile) in pendenza di un processo penale per lo stesso fatto, non trova più applicazione – nel nuovo codice di rito – la regola della cosiddetta pregiudizialità penale (che imponeva la sospensione del giudizio civile sino al passaggio in giudicato della sentenza penale: art. 3 cod. proc. pen. del 1930), ma il processo civile prosegue, di norma, autonomamente (art. 75, comma 2, cod. proc. pen.), salve le ipotesi eccezionali in cui il danneggiato abbia proposto la domanda in sede civile dopo essersi costituito parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado (art. 75, comma 3, cod. proc. pen.).
Del pari, diversamente dal codice abrogato (il quale prevedeva che la sentenza penale assumesse efficacia vincolante nel giudizio civile di danno: art. 23 cod. proc. pen. del 1930), il codice attuale stabilisce la diversa regola per cui la sentenza penale irrevocabile di assoluzione non ha efficacia di giudicato nel processo civile se il danneggiato ha esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, cod. proc. pen. (art. 652, comma 1, cod. proc. pen.).
Nell’ipotesi in cui la domanda risarcitoria venga, invece, proposta con la costituzione di parte civile nel processo penale, i rapporti tra azione civile e poteri cognitivi del giudice penale continuano ad essere informati, anche nel sistema accolto nel codice vigente, al principio dell’“accessorietà” dell’azione civile rispetto a quella penale, principio che trova fondamento nelle «esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi», e che ha quale naturale implicazione quella per cui l’azione civile, ove esercitata all’interno del processo penale, «è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura» di questo processo (sentenza n. 176 del 2019; in precedenza, anche sentenza n. 12 del 2016).
Il principio di “accessorietà” trova la sua principale espressione nella regola secondo la quale il giudice penale «decide» sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta con la costituzione di parte civile, «quando pronuncia sentenza di condanna» (art. 538, comma 1, cod. proc. pen.).
La condanna penale, dunque, costituisce il presupposto indispensabile del provvedimento del giudice sulla domanda civile: se emette sentenza di proscioglimento, tanto in rito (sentenza di non doversi procedere: artt. 529 e 531 cod. proc. pen.) quanto nel merito (sentenza di assoluzione: art. 530 cod. proc. pen.), il giudice non deve provvedere sulla domanda civile; se invece pronuncia sentenza di condanna (art. 533 cod. proc. pen.), provvede altresì sulla domanda restitutoria o risarcitoria, accogliendola o rigettandola.
Questa regola generale trova applicazione senza alcuna deroga nel giudizio penale di primo grado: il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno se – e solo se – pronuncia sentenza di condanna dell’imputato, soggetto debitore quanto alle obbligazioni civili risarcitorie o restitutorie.
Nei gradi di impugnazione, invece, questa regola talora deflette a tutela del diritto di azione della parte civile (art. 24, secondo comma, Cost.). La disciplina delle impugnazioni conosce, infatti, norme particolari, che attribuiscono al giudice del gravame o al giudice del rinvio in seguito a cassazione, il potere-dovere di provvedere sulla domanda civile, pur in presenza di una pronuncia di proscioglimento e quindi in assenza dell’accertamento della responsabilità penale.
Innanzi tutto l’art. 576 cod. proc. pen. prevede che la parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio o all’esito del rito abbreviato (ordinanza n. 32 del 2007; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 marzo-12 luglio 2007, n. 27614). In particolare la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che «nei confronti della sentenza di primo grado che dichiari l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come contro la sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammessa l’impugnazione della parte civile che lamenti l’erronea applicazione della prescrizione» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 marzo-3 luglio 2019, n. 28911).
L’esercizio di questa facoltà, ad opera della parte civile, «conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento del danno ed alle restituzioni, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto», atteso che esso, una volta adìto ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., «ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 11-19 luglio 2006, n. 25083).
La Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui prevede che la parte civile, legittimata a proporre l’impugnazione, ai soli effetti civili, della sentenza di proscioglimento, debba farlo dinanzi al giudice penale, anziché al giudice civile (sentenza n. 176 del 2019).
L’attribuzione alla parte civile della facoltà di impugnare, ai soli effetti civili, la sentenza di proscioglimento davanti al giudice penale non è irragionevole, avuto riguardo, sotto il profilo formale, alla circostanza che, «essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processualpenalistiche, anche il giudizio d’appello è devoluto a un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito»; e, tenuto conto, sotto il profilo sostanziale, del rilievo che tale giudice, «lungi dall’essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell’esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzi tutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell’imputato, confermando o riformando, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado».
Parimenti la disposizione ex art. 578 cod. proc. pen. mira a soddisfare un’analoga esigenza di tutela della parte civile; quella che, quando il processo penale ha superato il primo grado ed è nella fase dell’impugnazione, una risposta di giustizia sia assicurata, in quella stessa sede, alle pretese risarcitorie o restitutorie della parte civile anche quando non possa più esserci un accertamento della responsabilità penale dell’imputato ove questa risulti riconosciuta in una sentenza di condanna, impugnata e destinata ad essere riformata o annullata per essere, nelle more, estinto il reato per prescrizione.
Imprescindibile condizione perché il giudice dell’impugnazione possa decidere, non ostante il proscioglimento dell’imputato, sugli interessi civili è dunque, anzitutto, l’emissione di una valida condanna nel grado di giudizio immediatamente precedente, impugnata dall’imputato o dal pubblico ministero, alla quale sia sopravvenuta una causa estintiva del reato. Pertanto, fuori dall’ambito applicativo della norma è sia l’ipotesi in cui il giudice di appello, su impugnazione del pubblico ministero, dichiari la prescrizione del reato in riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, sia quella in cui il medesimo giudice accerti che la prescrizione del reato è maturata prima della pronuncia di primo grado.
Altro imprescindibile presupposto della possibilità di deliberare sulla pretesa civilistica consiste, poi, nella “specificità” della causa di proscioglimento sopravvenuta: la norma, infatti, non opera né nelle ipotesi di proscioglimento nel merito (all’eventuale assoluzione dall’imputazione penale pronunciata dal giudice dell’impugnazione non segue la decisione sul capo civile), né nell’ipotesi di cause estintive del reato diverse dalla prescrizione o dall’amnistia (ad esempio, per remissione di querela).
In questi limiti il legislatore ha voluto evitare che cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti, possano frustrare il diritto al risarcimento e alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di condanna, oggetto di impugnazione; finalità questa che si coniuga alla necessità di salvaguardare evidenti esigenze di economia processuale e di non dispersione dell’attività di giurisdizione.
Una più marcata deviazione dal principio generale di accessorietà dell’azione civile nel processo penale è poi quella recata dall’art. 622 cod. proc. pen., secondo cui, nel giudizio di cassazione, se gli effetti penali della sentenza di merito sono ormai cristallizzati per essersi formato il giudicato sui relativi capi, la cognizione sulla pretesa risarcitoria e restitutoria si scinde dalla statuizione sulla responsabilità penale e viene compiuta, in sede rescindente, dal giudice di legittimità e, in sede rescissoria, dal giudice civile di merito competente per valore in grado di appello, all’esito di rinvio.
L’art. 622 cod. proc. pen. prescrive che, «fermi gli effetti penali della sentenza», la Corte di cassazione, se annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, nella fattispecie contemplata dal primo ordine di ipotesi considerato dalla norma (che presuppone il ricorso dell’imputato o del pubblico ministero), rientrano non solo i casi in cui la responsabilità penale sia stata definitivamente accertata con esito positivo e l’annullamento disposto dalla Cassazione riguardi le statuizioni civili censurate dall’imputato ai sensi dell’art. 574 cod. proc. pen., ma anche i casi di annullamento delle statuizioni civili, rese dal giudice di appello all’esito dell’applicazione dell’art. 576 e dell’art. 578 cod. proc. pen.; inoltre il rinvio al giudice civile, a seguito dell’annullamento delle statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata per cassazione, va disposto non solo allorché assuma carattere meramente “prosecutorio”, ma anche quando assuma carattere “restitutorio” (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 18 luglio-27 settembre 2013, n. 40109).
Tale estensivo orientamento, in ordine all’ambito applicativo dell’art. 622 cod. proc. pen., è stato recentemente ribadito dalle stesse Sezioni unite penali, le quali hanno inoltre statuito che nel giudizio rescissorio di “rinvio” dinanzi al giudice civile, avente in realtà natura di autonomo giudizio civile (non vincolato dal principio di diritto eventualmente enunciato dal giudice penale di legittimità in sede rescindente), trovano applicazione le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e che l’accertamento richiesto al giudice del “rinvio” ha ad oggetto gli elementi costitutivi dell’illecito civile, prescindendosi da ogni apprezzamento, sia pure incidentale, sulla responsabilità penale dell’imputato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 gennaio-4 giugno 2021, n. 22065).
CORTE COSTITUZIONALE sentenza 182 del 2021