La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la domanda di trasferimento del lavoratore, avanzata nel corso del rapporto lavorativo, per l’assistenza in favore del familiare disabile.
La questione, in punto di diritto, riguarda se l’art. 33, comma 5, Legge n. 104 del 1992, modificato dalla Legge n. 53 del 2000 e poi dalla Legge n. 183 del 2010, debba trovare applicazione non solo nella fase genetica del rapporto quanto alla scelta della sede, ma anche in ipotesi di domanda di trasferimento proposta dal lavoratore; ulteriore questione riguarda la sussistenza dei requisiti di continuità ed esclusività dell’assistenza in favore del familiare.
La giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 28320/2010; n. 3896/2009), in riferimento all’art. 33, comma 5, Legge n.104 del 1992, nel testo anteriore alle modifiche di cui alla Legge n. 53 del 2000, ha statuito come la norma di cui alla Legge 5 Febbraio 1992, n. 104, art. 33, comma 5, sul diritto del genitore o familiare lavoratore “che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato” di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, è applicabile non solo all’inizio del rapporto di lavoro mediante la scelta della sede ove viene svolta l’attività lavorativa, ma anche nel corso del rapporto mediante domanda di trasferimento. La ratio della norma è infatti quella di favorire l’assistenza al parente o affine handicappato, ed è irrilevante, a tal fine, se tale esigenza sorga nel corso del rapporto o sia presente all’epoca dell’inizio del rapporto stesso.
Tale interpretazione si impone, a maggior ragione, dopo le modifiche introdotte con la Legge n. 53 del 2000, che ha eliminato il requisito della convivenza tra il lavoratore e il familiare handicappato, e poi con l’art. 24 della Legge n. 183 del 2010 che, intervenendo sull’art. 20, comma 1, della Legge n. 53 del 2000, ha eliminato i requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza; l’art. 33, comma 5, Legge n. 104 del 1992 risultante all’esito di tali interventi normativi è formulato nel modo seguente “Il lavoratore di cui al comma 3 (il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità) ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede“.
Dal punto di vista letterale, la disposizione in esame non contiene un espresso e specifico riferimento alla scelta iniziale della sede di lavoro e risulta quindi applicabile anche alla scelta della sede di lavoro fatta nel corso del rapporto, attraverso la domanda di trasferimento; né la dizione letterale adoperata nel citato comma 5 dell’art. 33 implica la preesistenza dell’assistenza in favore del familiare rispetto alla scelta della sede lavorativa (anche a seguito di trasferimento), in quanto al lavoratore è riconosciuto il diritto di “scegliere la sede di lavoro” più vicina al “domicilio della persona da assistere“, non necessariamente già assistita.
La previsione di cui al citato comma 5 dell’art. 33, al pari delle disposizioni sui permessi mensili retribuiti di cui al comma 3, rientra nel novero delle agevolazioni e provvidenze riconosciute, quale espressione dello Stato sociale, in favore di coloro che si occupano dell’assistenza nei confronti di parenti disabili e ciò sul presupposto che il ruolo delle famiglie “resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap” (Corte Cost. n. 213 del 2016; n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).
L’assistenza del disabile e, in particolare, il soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione, in tutte le sue modalità esplicative, costituiscono fondamentali fattori di sviluppo della personalità e idonei strumenti di tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica (Corte Cost. n. 213 del 2016; n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003).
Il diritto alla salute psico-fisica, comprensivo della assistenza e della socializzazione, va dunque garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (Corte Cost. n. 213 del 2016; n. 138 del 2010), ivi compresa appunto la comunità familiare.
L’art. 33, comma 5 disciplina uno strumento indiretto di tutela in favore delle persone in condizione di handicap, attraverso l’agevolazione del familiare lavoratore nella scelta della sede ove svolgere l’attività affinché quest’ultima risulti il più possibile compatibile con la funzione solidaristica di assistenza; circoscrivere l’agevolazione in favore dei familiari della persona disabile al solo momento della scelta iniziale della sede di lavoro, come preteso dalla società ricorrente, equivarrebbe a tagliare fuori dall’ambito di tutela tutti i casi di sopravvenute esigenze di assistenza, in modo del tutto irrazionale e con compromissione dei beni fondamentali richiamati nelle pronunce della Corte Costituzionale sopra citate.
Corte di Cassazione Civile Ord. Num. 6150 Anno 2019