La Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito, con la sentenza in commento, nell’ambito della induzione alla prostituzione minorile “se la condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integri gli estremi della fattispecie di cui al comma primo o di cui al comma secondo dell’art. 600-bis del codice penale“.
Appare opportuno ricordare, al riguardo, che, nella elencazione casistica di fattispecie illecite adottata dalla Legge 20 febbraio 1958, n. 75 (nota come legge Merlin), è ricompresa, al numero 5 del comma secondo dell’art. 3, la condotta di “chiunque induca alla prostituzione una donna di età maggiore, o compia atti di lenocinio, sia personalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”.
Nelle previsioni della Legge n. 75 del 1958 la condotta di “induzione alla prostituzione minorile” derivava poi dall’interazione di tale norma incriminatrice con il disposto del successivo art. 4, n. 2, che contemplava come circostanza aggravante, comportante il raddoppio della pena, l’ipotesi che i fatti previsti all’art. 3 e dunque anche la condotta induttiva, fossero commessi “ai danni di una persona minore degli anni 21 o di persona in stato di infermità o minorazione psichica, naturale o provocata”. La legge Merlin estendeva dunque la tutela a tutti gli infraventunenni, con riferimento all’adora vigente limite per la maggiore età.
L’assetto normativo così consolidatosi in tema di prostituzione ha subito, dopo un quarantennio, un radicale mutamento per quanto riguarda la tutela dei minori, per effetto dell’entrata in vigore della Legge 3 agosto 1998, n. 269, nota anche come legge contro la pedofilia (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 185 del 10 agosto 1998).
La promulgazione di tale legge è derivata dalla necessità per l’Italia di conformarsi ai principi sanciti nella Convenzione di New York del 1989, ratificata con la Legge n. 176 del 27 maggio 1991, e dalla dichiarazione finale della Conferenza mondiale di Stoccolma adottata il 31 agosto del 1996: principi che individuano “il fanciullo come soggetto da tutelare contro ogni forma di sfruttamento e violenza sessuale, a salvaguardia del suo sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale” (l’art. 1 della Legge n. 269 del 1998, presentandosi come una sorta di preambolo introduttivo e giustificativo, fa espresso riferimento a tali documenti internazionali).
La protezione del fanciullo è principalmente perseguita, dal legislatore del 1998, attraverso il deciso rafforzamento dell’apparato normativo volto alla tutela penale del minore, sia attraverso l’introduzione di nuove fattispecie delittuose dopo l’art. 600 del codice penale – come appunto l’art. 600 bis (prostituzione minorile) con relative circostanze aggravanti e attenuanti – sia mediante la collocazione sistematica di tali norme nel Libro II del codice, in particolare nella Sezione I del Capo III del Titolo XII, dedicata ai delitti contro la personalità individuale, individuata (secondo quanto emerge dai lavori preparatori) come la più congrua ad esprimere il reato che si compie nei confronti dell’integrità del minore medesimo.
L’art. 600 bis del codice penale, nella formulazione del 1998, così recitava: “Chiunque induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto ovvero ne favorisce o sfrutta la prostituzione è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da lire trenta milioni a lire trecento milioni. – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa fra i quattordici ed i sedici anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a lire dieci milioni. La pena è ridotta di un terzo se colui che commette il fatto è persona minore degli anni diciotto”.
Nella Legge del 1998, la nuova incriminazione era accompagnata dalla previsione di circostanze aggravanti ed attenuanti (individuate nell’allora art. 600-sexies C.p.): tra le altre, l’aumento da un terzo alla metà per i fatti previsti dall’art. 600-bis, primo comma (induzione, favoreggiamento, sfruttamento), commessi in danno di minore degli anni quattordici e la previsione di aumento di pena in caso di fatto commesso con violenza o minaccia.
Contestualmente all’introduzione dell’art. 600-bis nel codice penale, l’art. 18 della Legge n. 269 del 1998 ha decretato l’abrogazione della sopra ricordata circostanza aggravante di cui all’art. 4, n. 2 della Legge Merlin, nella parte in cui prevedeva l’applicazione di una pena raddoppiata per le ipotesi in cui il fatto fosse commesso a danno di persona minore degli anni ventuno.
L’ordinamento registra dunque, con la legge n. 269 del 1998, la creazione di una fattispecie autonoma di “induzione” (oltre che di favoreggiamento e sfruttamento) “della prostituzione minorile“, laddove in precedenza la minore età della vittima rappresentava mera circostanza aggravante, nonché la creazione di una nuova figura di reato, quella di atti sessuali retribuiti con minorenne, del tutto inedita nel catalogo criminale.
Nei lavori preparatori della Legge n. 269 del 1998 viene espressamente affermato che con la nuova norma si è voluto sottolineare che la personalità del minore, oltre che l’abuso sessuale, subisce un ulteriore abuso: quello della compravendita, donde, seppur nella differenziazione sia del reato che delle pene, una non assoluta alterità tra chi sfrutta la prostituzione e il “cliente“, posto che entrambi entrano, sia pure con ruoli molto diversi, nella circolante della domanda e dell’offerta, essendo i terminali di un rapporto al cui centro sta l’offesa all’integrità del minore.
A distanza di pochi anni dall’entrata in vigore della legge antipedofilia e dalla introduzione dell’art. 600-bis nel codice penale è intervenuta una prima modifica di tale norma, per effetto della Legge 6 febbraio 2006, n. 38 (emanata per dare attuazione a quanto stabilito dalla decisione-quadro 2004/68/GAI del Consiglio dell’Unione Europea, approvata il 22-12-2003, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile) che ha innalzato la soglia di età della vittima degli atti sessuali dietro retribuzione, pareggiandola a quella del minore indotto o sfruttato ma operando una distinzione ai fini della pena: ai sensi dell’art. 1 della legge citata, infatti, i commi secondo e terzo dell’art. 600 bis C.p. sono stati completamente riscritti, sicché “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a Euro 5.164 (comma primo), mentre Nel caso in cui il fatto di cui al secondo comma sia commesso nei confronti di persona che non abbia compiuto gli anni sedici, si applica la pena della reclusione da due a cinque anni” (comma 2).
Una più radicale modifica è stata introdotta, per ultimo, dalla Legge 1 ottobre 2012, n. 172 (entrata in vigore il 23 ottobre 2012) con la quale l’Italia ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, stipulata a Lanzarote il 25 ottobre 2007.
L’art. 4 di detta legge ha totalmente riscritto l’art. 600-bis C.p. e la nuova ed allo stato vigente formulazione della norma prevede – al comma primo – la punizione con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da Euro 15.000 a Euro 150.000 di chiunque:
1) recluta o induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto;
2) favorisce, sfrutta, gestisce, organizza o controlla la prostituzione di una persona di età inferiore agli anni diciotto, ovvero altrimenti ne trae profitto.
Ai sensi del comma secondo, invece: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità, anche solo promessi, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da Euro 1.500 a Euro 6.000”.
Sono stati aggiunti poi, all’articolo 602-ter, dopo il secondo comma, ulteriori commi che introducono circostanze aggravanti: tra di essi, ai fini che qui rilevano, il comma (quinto) che prevede che nei casi previsti dagli articoli 600-bis, primo e secondo comma, 600-ter e 600-quinquies, nonché dagli articoli 600, 601 e 602, la pena è aumentata dalla metà ai due terzi se il fatto è commesso in danno di un minore degli anni sedici.
La formulazione dell’art. 600 bis C.p. pone una netta differenziazione (resa più marcata per effetto delle modificazioni introdotte dalla Legge n. 172 del 2012) fra la più grave ipotesi di cui al primo comma, fattispecie destinata a punire coloro che avviano i minori all’attività di prostituzione, li trattengono in tale attività e ne traggono vantaggio, e quella di cui al secondo comma, funzionale alla punizione di coloro che si limitano a compiere atti sessuali a pagamento con soggetti minorenni, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano o meno già dediti ad attività di mercimonio sessuale del proprio corpo.
In relazione a tali diverse previsioni incriminatrici la Sezione remittente ha dubitato della possibilità di applicazione, nell’interpretazione delle stesse, dei principi che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato con riferimento alla disciplina dettata dalla Legge n. 75 del 1958 per il reato di “induzione alla prostituzione” di persona maggiorenne.
Nel caso di prostituzione di persona maggiorenne è stato evidenziato in dottrina come la legge Merlin (di fronte alla evoluzione storica di un fenomeno, i cui aspetti più preoccupanti sono quelli legati all’impressionante quota di attività direttamente gestita dalla criminalità organizzata) abbia perseguito la finalità di riconsegnare all’alveo dell’attività del tutto libera, non sanzionabile da parte dell’ordinamento, l’esercizio del meretricio che sia frutto di una scelta non condizionata da forme di coazione o di sfruttamento.
Anche la Corte di legittimità ha recentemente osservato (Cass., Sez. 3, sent. n. 20384 del 29/01/2013), in proposito, che bisogna muovere “dal punto fermo rappresentato dalla scelta del legislatore di considerare attività non vietata, e dunque in sé lecita, quella che la persona liberamente svolge scambiando la propria fisicità contro denaro”, ed ha ricordato che “le sanzioni penali fissate dalla legge 20 gennaio 1958, n. 75, debbono essere applicate a coloro che condizionano la libertà di determinazione della persona che si prostituisce, a coloro che su tale attività lucrano per finalità di vantaggio e, infine, a coloro che offrono un contributo intenzionale all’attività di prostituzione eccedendo i limiti dell’ordinaria prestazione di servizi”, sottolineando la necessità di non operare interpretazioni tali “da reintrodurre surrettiziamente presupposti di illiceità in sé della prostituzione che vengono formalmente ed espressamente negati e che, invece, potrebbero finire per qualificare come illegali condotte e prestazioni di servizi alla prostituta che non risulterebbero penalmente rilevanti se destinati ad altre attività”.
Quanto vale per gli adulti muta tuttavia completamente nel caso dei minori, essendo la dottrina e la giurisprudenza concordi sull’impossibilità di considerare “libera” la prostituzione di soggetti minorenni.
Per il minore, infatti, la prostituzione rappresenta raramente il frutto di una scelta spontanea, essendo prevalentemente determinata da pressioni (o da vere e proprie coercizioni) di fronte alle quali egli non dispone di alcuna valida alternativa, sicché l’atto sessuale compiuto dal minore prostituito non può inquadrarsi in un’area di libertà, area la cui sostanziale inesistenza il “cliente” non può dunque né ignorare, né fingere di non conoscere.
Quand’anche, poi, si dovesse riscontrare l’assenza di interventi esterni di condizionamento di tale spazio di libertà, è comunque ragionevole che l’ordinamento vieti l’acquisto di prestazione sessuali presso un soggetto che presuntivamente non ha ancora raggiunto quel livello di maturità tale da consentirgli una valutazione davvero consapevole in ordine alle ricadute della mercificazione del proprio corpo sul suo sviluppo psico-fisico; ne consegue che, indipendentemente dal suo atteggiamento psicologico e dalla sua condotta (quand’anche connivente o adescatrice), il minore è reputato sempre e comunque una vittima.
Il carattere “non libero” della prostituzione minorile – ritenuta dal legislatore come condotta che comporta l’annientamento della personalità individuale del minore – spiega, sul piano teorico, la punibilità della condotta del “cliente“, del tutto immune da censure sul piano penale se invece rapportata alla prostituzione di soggetto adulto.
L’induzione alla prostituzione di maggiorenne – in mancanza di una specifica definizione legislativa ma in coerenza con il primo criterio ermeneutico indicato dall’art. 12 delle “Disposizione sulla legge in generale” rispetto al significato che del termine è universalmente accettato nella lingua italiana – è stata tradizionalmente ritenuta come quell’attività, coscientemente finalizzata, di persuasione, di convincimento, di determinazione, di eccitamento, di rafforzamento della decisione, svolta nei confronti di un soggetto, sia facendo sorgere in quello l’idea di prostituirsi, sia aggiungendo ulteriori motivi o stimoli per dedicarsi alla prostituzione o a riprendere tale attività se interrotta ed a persistervi se volesse abbandonarla (vedi già Cass., Sez. 3: n. 1833 del 20/12/1968; n. 2298 del 04/12/1978; n. 8869 del 12/03/1984). L’opera di convincimento può consistere anche in doni, lusinghe, promesse, preghiere, ma deve realizzarsi in una attività positiva, idonea e concreta, non essendo sufficiente la semplice inerzia o tolleranza e neppure la semplice proposta e deve avere avuto una efficacia causale e rafforzativa, sicché senza il fatto del colpevole il soggetto non si sarebbe dato alla prostituzione.
La mera proposta di partecipare ad incontri sessuali a pagamento non costituisce condotta induttiva se non accompagnata da condotte ulteriori consistenti in pressioni fisiche o psicologiche che spingono la persona a prostituirsi superando le resistenze di ordine morale, o di altra natura, che la trattengono dall’attività di prostituzione (così Cass., Sez. 2: n. 7424 del 13/05/1987; n. 36156 del 03/06/2004; n. 33470 del 04/07/2006; n. 26216 del 19/05/2010).
La dottrina assolutamente prevalente esclude la configurazione della condotta di induzione nell’ipotesi del “cliente” stesso della prostituta maggiorenne, che, inteso quale mero fruitore delle prestazioni sessuali, viene considerato del tutto estraneo a tale ipotesi criminosa.
Anche in giurisprudenza non paiono registrarsi orientamenti, nell’ambito della prostituzione di maggiorenne, che qualifichino come illecita – sub specie dell’induzione – la condotta del “cliente“; condotta piuttosto inquadrata in alcune pronunce di merito nella diversa ipotesi del favoreggiamento, ma con esiti che essenzialmente non hanno resistito al vaglio di legittimità (cfr. Cass., Sez. 3, n. 16536 del 14/02/2001).
Diversamente, nell’ipotesi di vittima minorenne, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’adulto che paga il minore perché compia con lui atti sessuali contestualmente lo induce alla prostituzione e perciò deve rispondere ai sensi del primo comma dell’art. 600 bis C.p.
Nella sentenza successive (n. 43820 del 26/11/2007; n. 26216 del 19/05/2010; n. 16759 del 07/02/2013) si è tuttavia evidenziata la necessità che la dazione del corrispettivo sia accompagnata da un’opera di convincimento finalizzata a vincere la resistenza del minore.
La sentenza n. 18315 del 14/04/2010 – in una fattispecie in cui all’indagato veniva contestato di avere indotto alla prostituzione un ragazzino che non aveva ancora compiuto dieci anni, convincendolo ad avere con lui rapporti sessuali dietro remunerazione – ha affermato, invece, che la semplice dazione di denaro doveva considerarsi sufficiente a persuadere il minore a consentire agli atti sessuali sia pure esclusivamente con il soggetto agente.
Con la sentenza n. 4235 del 11/01/2011,, nella condotta di induzione è stata ricompresa anche una ripetuta dazione o offerta di danaro o altra utilità che, di per sé sola considerata, ossia interamente affrancata dalla necessità di ulteriori requisiti di condotta “suggestiva” (verbale o di altra natura), abbia spinto il minore al meretricio.
A fronte del quadro interpretativo dianzi delineato, occorre rilevare che anche la condotta di induzione alla prostituzione minorile (sanzionata dal primo comma dell’art. 600 bis C.p.), per essere penalmente rilevante, deve essere sganciata dall’occasione nella quale l’agente è parte del rapporto sessuale e oggettivamente rivolta ad operare sulla prostituzione esercitata nei confronti di terzi.
L’induzione del minore alla prostituzione prescinde dall’effettuazione diretta dell’atto sessuale con l’induttore e può riguardare soltanto chi determina, persuade o convince il soggetto passivo a concedere il proprio corpo per pratiche sessuali da tenere non esclusivamente con il persuasore ma con terzi, che possono consistere anche in una sola persona, a condizione però che questa non si identifichi nell’induttore.
Il principio secondo il quale sussiste l’attività di prostituzione di soggetto adulto anche nel caso di rapporto con una sola persona è affermato da Cass., Sez. 3, n. 6191 del 20/04/1983; Sez. 1, n. 7947 del 13/03/1986; Sez. 3, n. 7933 del 04/05/1984. In tema di prostituzione minorile lo stesso principio è enunciato da Cass., Sez. 3, n. 7368 del 18/01/2012.
Nella nostra tradizione giuridica il tipo normativo della “induzione alla prostituzione” si pone – infatti – dal lato dell’offerta del sesso mercenario e non della domanda, sicché la basilare distinzione fra induttore e cliente deve muoversi fra attività rientranti nell’ambito dell’offerta di prostituzione e attività rientranti nell’ambito della domanda.
Dagli stessi lavori preparatori della Legge n. 269 del 1998 emerge chiaramente che solo con il secondo comma dell’art. 600 bis C.p. “si introduce […] una figura nuova nel nostro codice: la figura del cliente”; ne consegue che l’unica fattispecie utilizzabile ai fini dell’incriminazione del cliente è quella prevista dal secondo comma dell’art. 600 bis C.p.
Tale opzione interpretativa non compromette le esigenze di maggior tutela del minore rispetto all’adulto affermate anche a livello sovranazionale, poiché la valenza persuasiva strutturalmente insita nel pagamento del minore per ottenere una prestazione sessuale diretta è già assorbita dal disvalore tipico del fatto descritto nel secondo comma dell’art. 600-bis C.p.
L’induzione di cui al primo comma dello stesso art. 600-bis è stata distinta dal legislatore dalla mera fruizione di una prestazione sessuale a pagamento in quanto equiparata a condotte di indubbia maggiore offensività (reclutamento, sfruttamento, favoreggiamento, organizzazione e gestione della prostituzione minorile) che ben giustificano – a fronte della collocazione sistematica delle due fattispecie all’interno del medesimo articolo – il diversissimo quadro edittale di pena.
Tenuto conto che la fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 600 bis C.p. presuppone la necessaria correlazione causale fra la dazione o la promessa di danaro o di altra utilità e la prestazione sessuale del minore, deve essere altresì evidenziato che la figura polivalente ed ubiquitaria del cliente mero fruitore del sesso a pagamento che, come tale, contestualmente indurrebbe il minore alla prostituzione comporterebbe, di fatto, l’abrogazione implicita dello stesso secondo comma dell’art. 600-bis (che, come osservato da autorevole dottrina, sarebbe “nato già morto“).
Non possono ritenersi decisivi, in senso contrario, argomenti basati sulla collocazione del reato di cui all’art. 600 bis, comma 2,C.p. sotto la rubrica “Prostituzione minorile“: non c’è dubbio infatti che la condotta descritta dal secondo comma presenta pur sempre un collegamento con il fenomeno della prostituzione minorile in quanto in molteplici casi essa può essere destinata ad inserirsi in un contesto di sfruttamento sistematico del minore; tuttavia la ratio della norma in esame è quella di sanzionare autonomamente anche il singolo ed estemporaneo rapporto a pagamento per la sua attitudine ad alimentare, sia pure indirettamente, il circuito della prostituzione (lo stimolo del compenso, infatti, potrebbe spingere il minore a proseguire l’attività e ad estendere la sfera dei clienti, con l’inevitabile pericolo di determinare, nel tempo, un suo stabile inserimento nel mercato).
Nell’ambito dell’induzione alla prostituzione di soggetto maggiorenne il legislatore, se avesse ritenuto di poter punire il cliente, avrebbe fatto emergere la contraddizione di un ordinamento che da una parte considera lecito il meretricio in quanto tale, cioè l’offerta, e dall’altra sanziona penalmente la richiesta della prestazione, cioè la domanda.
L’incriminazione del cliente in ambito minorile – sancita con il comma secondo dell’art. 600-bis C.p. – costituisce, invece, un’evidente eccezione rispetto a tale paradigma, perfettamente giustificata dal diverso oggetto giuridico e dalla differente finalità di tutela, ma che come tale, ossia proprio in quanto fattispecie autonoma di incriminazione della dazione/offerta di denaro da parte del cliente per avere rapporti sessuali con il minore, segna la chiara conferma, a contrario, della impossibilità di ravvisare una attività induttiva nella sola condotta di chi domanda ad un minore prestazioni sessuali come “consumatore” dandone o promettendone il pagamento; condotta che invece deve necessariamente rientrare, pena appunto una tacita abrogazione, nella fattispecie di cui al comma secondo, altrimenti applicabile soltanto nella pur esistente ma certamente ridotta casistica di dazione/offerta rivolta verso minore già dedito alla prostituzione, in aperta contraddizione però con il consolidato approdo giurisprudenziale che ha ripudiato fermamente, almeno negli ultimi anni, ogni vaga idea di minore “corrotto“.
Si afferma, in conclusione, il seguente principio di diritto: “La condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al comma secondo e non al comma primo dell’art. 600-bis del codice penale“.
Corte di Cassazione Sentenza 19 dicembre 2013 – 14 aprile 2014, n. 16207