La colpevolezza

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Articolo 27 Costituzione

La responsabilità penale è personale.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte.

La norma individua il principio di colpevolezza, intesa quest’ultima come relazione tra soggetto e fatto.

Va, a questo proposito, sottolineato che non è stato sufficientemente posto l’accento sulla diversità di due accezioni del termine colpevolezza. La prima, tradizionale, fa riferimento ai requisiti subiettivi della fattispecie penalmente rilevante (ed eventualmente anche alla valutazione di tali requisiti ed alla rimproverabilità del soggetto agente); la seconda, fuori dalla sistematica degli elementi del reato, denota il principio costituzionale, garantista (relativo alla personalità dell’illecito penale, ai presupposti della responsabilità penale personale ecc.) in base al quale si pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena. Qui si userà il termine colpevolezza soprattutto in quest’ultima accezione mentre lo stesso termine, all’infuori della prospettiva costituzionale (nell’impossibilità di ritenere “costituzionalizzata”, come si preciserà fra breve, una delle tante concezioni della colpevolezza proposte dalla dottrina) verrà riferito al vigente sistema ordinario di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p.: questo sistema verrà, infatti, posto in raffronto con l’art. 27, primo e terzo comma e con i fondamentali principi dell’intera Costituzione, al fine di chiarire come l’art. 5 c.p., incidendo negativamente sul sistema ordinario della colpevolezza (attraverso l’esclusione d’ogni rilievo della conoscenza della legge penale) fa sì che lo stesso sistema non si riveli adeguato alle direttive costituzionali in tema di requisiti subiettivi minimi d’imputazione.

Va, a questo punto, precisato, per quanto, forse, superfluo, che la colpevolezza costituzionalmente richiesta, come avvertito dalla più recente dottrina penalistica, non costituisce elemento tale da poter esser, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato. Limpidamente testimonia ciò la stessa recente, particolare accentuazione della funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza. Sia nella concezione che considera quest’ultima “fondamento”, titolo giustificativo dell’intervento punitivo dello Stato sia nella concezione che ne accentua particolarmente la sua funzione di limite allo stesso intervento (garanzia del singolo e del funzionamento del sistema) inalterato permane il “valore” della colpevolezza, la sua insostituibilità.

Per precisare ancor meglio l’indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d’attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su “congrui” elementi subiettivi. La strutturale “ambiguità” della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d’intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella “non colpevole” e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto.

A nulla varrebbe, infatti, in sede penale, garantire la riserva di legge statale, la tassatività delle leggi ecc. quando il soggetto fosse chiamato a rispondere di fatti che non può, comunque, impedire od in relazione ai quali non è in grado, senza la benché minima sua colpa, di ravvisare il dovere d’evitarli nascente dal precetto. Il principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto.

Le premesse precisazioni indicano la “chiave di lettura“, il quadro garantistico entro il quale inserire l’esegesi dell’art. 27, primo comma, Cost.

Va, intanto, notato che l’art. 27 Cost. non può esser adeguatamente compreso ove lo si legga in maniera, per così dire, spezzettata, senza collegamenti “interni”. I commi primo e terzo vanno letti in stretto collegamento: essi, infatti, pur enunciando distinti principi, costituiscono un’unitaria presa di posizione in relazione ai requisiti subiettivi minimi che il reato deve possedere perché abbiano significato gli scopi di politica criminale enunciati, particolarmente, nel terzo comma. Delle due l’una: o il primo è in palese contraddizione con il terzo comma dell’art. 27 Cost. oppure è, appunto, quest’ultimo comma che svela, ove ve ne fosse bisogno, l’esatto significato e la precisa portata che il principio della responsabilità penale personale assume nella Costituzione. Sicché, quand’anche la lettera del primo comma dell’art. 27 desse luogo a dubbi interpretativi, essi sarebbero certamente fugati da un’attenta considerazione delle finalità della pena, di cui al terzo comma dello stesso articolo.

Nell’esame del merito dell’interpretazione dell’art. 27, primo comma, Cost., vanno approfonditi i dibattiti svoltisi durante i lavori preparatori.

È anzitutto da sottolineare che la motivazione politica della norma in esame non risulta essere stata l’unico argomento dei dibattiti svoltisi, nella seduta del 18 settembre 1946, presso la I sottocommissione (della “Commissione per la Costituzione”) anzi, tale motivazione venne introdotta, come opinione personale del presidente della stessa sottocommissione, quasi alla fine della seduta ed allo scopo di “mantenere” la norma (che costituiva il capoverso dell’art. 5 del Progetto di Costituzione) contro le richieste della sua soppressione. Gli argomenti trattati in precedenza risultano essere stati vari, tutti, comunque, tendenti ad escludere che da una, sia pur erronea, interpretazione della formula normativa potesse desumersi la legittimità di responsabilità penali senza partecipazione subiettiva.

Alcuni Costituenti mostrarono, con felice intuizione, davvero premonitrice, forti preoccupazioni sulla possibilità di equivoci nell’interpretazione della formula “La responsabilità penale è personale” e ne chiesero la soppressione, temendo si potesse ritenere “configurabile” una responsabilità penale senza elemento subiettivo. La terminologia è spesso imprecisa ma la volontà certa.

Si iniziò, da parte di alcuni Costituenti, rilevando che vi sono casi in cui è “discutibile se si tratti di responsabilità personale o non si tratti di responsabilità penale anche per fatto altrui”. Si proseguì sottolineando che non si devono creare equivoci, anche “avuto riguardo agli artt. 1151, 1152 e 1153 del vecchio Codice civile, articoli che non trovano la loro corrispondenza nel codice fascista”.

Si sostenne, da altro Costituente, che la formula “La responsabilità penale è personale” fosse da mantenersi, essendo essa affermazione di libertà e civiltà, limpidamente aggiungendo: “Si risponde per fatto proprio e si risponde attraverso ogni partecipazione personale al fatto proprio. Questo è il principio del diritto moderno, che trova la sua espressione nel principio della consapevolezza che deve accompagnare il fatto materiale. Parlare di responsabilità personale significa richiamarsi ad un principio che domina nell’odierno pensiero della scienza giuridica”.

Intorno ai “dubbi” (ripetiamo, non sulla necessità dell’elemento subiettivo per la responsabilità penale ma sulla possibilità che, interpretando erroneamente la formula, si potesse ritenere ammissibile una responsabilità senza elemento subiettivo) si chiesero “chiarimenti” sui “fatti penali commessi per ordine altrui” e, dando all’espressione “fatto altrui” un significato che includeva nel termine “fatto” anche l’elemento subiettivo, si osservò che quest’ultimo manca, talvolta, in chi pur consuma materialmente il reato e che, appunto per tale mancanza, non può esser chiamato a rispondere penalmente. Se chi opera materialmente, s’affermò esplicitamente, agisce per fatto altrui, per esempio per l’esecuzione d’un ordine, la responsabilità non è più dell’esecutore dell’ordine, il quale ha consumato il reato ma di chi ha dato l’ordine. Non è, dunque, responsabile “chi ha eseguito un ordine legittimo dell’autorità” perché manca di elemento subiettivo ed è responsabile chi ha commesso il fatto (altrui rispetto all’esecutore) perché nel fatto è incluso il predetto elemento.

Si replicò, puntualmente, da parte di autorevoli Costituenti, affermando che “Colui che ha commesso un atto delittuoso risponde di persona propria se si trovava nella condizione di poter disobbedire”: “altrimenti risponderà colui che ha dato l’ordine e risponderà in persona propria per aver prodotto il fatto delittuoso stesso”. E si aggiunse che colui che esegue l’ordine “non risponde penalmente perché da lui non si poteva pretendere che agisse diversamente”.

Vi fu, poi, chi osservò che la responsabilità personale non è un principio moderno ma un principio che, già nel 1500 o 1600, il diritto canonico, riportando il delitto ad un peccato dell’anima, aveva reso effettivo; e chiese la soppressione della formula in esame da un canto perché scontata e dall’altro perché, ritornando sul principio, si potevano provocare confusioni in tema di soggetti che sono in colpa (e per questo devono penalmente rispondere) ma le cui azioni non sono causa diretta o prossima dell’evento (“non sono direttamente colpevoli”).

Tutti i Costituenti, dunque, almeno fino a questo momento del dibattito, sostennero che la responsabilità penale personale implicava necessariamente, oltre all’elemento materiale, un requisito subiettivo e, per alcuni Costituenti, l’esistenza, in particolare, della possibilità di muovere rimprovero all’agente, potendo da lui pretendersi un comportamento diverso.

Esaminando gli ulteriori interventi ci s’accorge che, soltanto quasi alla fine della discussione, mirandosi a respingere le richieste di soppressione della norma in esame, si spostò il dibattito sulle motivazioni politiche della stessa norma sostenendo che non si doveva dimenticare che, in occasione di attentati alla vita di Mussolini, si erano perseguiti i familiari dell’attentatore od i componenti dei circoli politici a cui era affiliata la persona che aveva consumato l’attentato e che, pertanto, la norma andava mantenuta.

Da ciò si desume da un canto che il termine fatto (altrui) venne usato, da chi sosteneva la motivazione politica dell’attuale primo comma dell’art. 27 Cost., come comprensivo dell’elemento subiettivo (attentare alla vita di Mussolini è agire colpevolmente) e dall’altro che tale motivazione tendeva (dichiarata per l’avvenire l’illegittimità costituzionale di sanzioni collettive) a non far ricadere su innocenti “colpe” altrui. L’intervento successivo a quello del presidente della prima sottocommissione è oltremodo eloquente in proposito: “…Proprio in questi ultimi tempi si sono viste delle persone pagare con la vita colpe che non avevano assolutamente commesso”. La motivazione politica della norma è, dunque, quella d’impedire che “colpe altrui” ricadano su chi è estraneo alle medesime.

Né va dimenticato che, nella seduta successiva (19 settembre 1946) della stessa prima sottocommissione, allorché si trattò di sostituire il termine “colpevole” con quello di “reo”, dapprima si suggerì d’usare la parola “condannato” ma, successivamente, di fronte alla contestazione sull’inusualità del termine “condannato” fuori dalla sede processuale, si tornò, per un momento, alla parola “colpevole”, dichiarandosi espressamente: “Questa parola è più chiara, specialmente quando si parla di rieducazione del colpevole, perché il termine di rieducazione presuppone una colpa”.

Ma la conferma definitiva per la quale i Costituenti mirarono, con la norma di cui al primo comma dell’art. 27 Cost., ad escludere la responsabilità penale senza elemento subiettivo si ha ricordando che alcuni Costituenti presentarono, questa volta in Assemblea (seduta antimeridiana del 15 aprile 1947) un emendamento alla norma in esame, sostitutivo della parola “personale” con l’espressione “solo per fatto personale” e che, nella seduta del 26 marzo 1947 dell’Assemblea costituente, si motivò l’emendamento, fra l’altro, affermando che si doveva armonizzare la responsabilità penale per fatto proprio con la responsabilità del direttore di giornali per reati di stampa, “così che la presunzione assoluta di colpa iuris et de iure si trasformi in presunzione iuris tantum”. E nella seduta pomeridiana del 27 marzo 1947 della stessa Assemblea, si motivò ancora una volta, da parte d’altro autorevole presentatore, il citato emendamento, dichiarandosi: “… E qui conviene stabilire che la responsabilità penale è sempre per fatto proprio mai per fatto altrui; così delimitandosi quell’arbitraria inaccettabile configurazione di responsabilità presuntiva in materia giornalistica”. La responsabilità penale sorge, dunque, solo nell’effettiva presenza dell’elemento subiettivo: non si può mai dare per presunta la colpa.

Se si tien presente che il caso della responsabilità penale del direttore di giornali per reati commessi a mezzo stampa era considerato, nel 1946-47, dall’assoluta maggioranza della dottrina, classico caso di responsabilità penale senza elemento subiettivo di collegamento con l’evento, non si può non dare il giusto rilievo all'”assicurazione” che il Presidente della prima sottocommissione, nella seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 dell’Assemblea, diede ai presentatori del citato emendamento, nel pregarli di ritirarlo, sull’inesistenza delle preoccupazioni affacciate, data la formulazione proposta dalla Commissione.

In conclusione, va confermato che, per quanto si usino le espressioni fatto proprio e fatto altrui, che possono indurre in errore, in realtà, in tutti i lavori preparatori relativi al primo comma dell’art. 27 Cost., i Costituenti mirarono, sul piano dei requisiti d’imputazione del reato, ad escludere che si considerassero costituzionalmente legittime ipotesi carenti di elementi subiettivi di collegamento con l’evento e, sul piano politico, a non far ricadere su “estranei” “colpe altrui”. E mai, in ogni caso, venne usato il termine fatto come comprensivo del solo elemento materiale, dell’azione cosciente e volontaria seguita dal solo nesso oggettivo di causalità: anzi, sempre venne usato lo stesso termine come comprensivo anche d’un minimo di requisiti subiettivi, oltre a quelli relativi alla coscienza e volontà dell’azione.

Ma il significato del primo comma dell’art. 27 Cost. va chiarito, anche a parte i citati lavori preparatori, nei suoi particolari rapporti con il terzo comma dello stesso articolo e con gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma, Cost.

Anzitutto, è significativa la “lettera” del primo comma dell’art. 27 Cost. Non si legge, infatti, in esso: la responsabilità penale è “per fatto proprio” ma la responsabilità penale è “personale“. Sicché, chi tendesse ad esaminare lo stesso comma sotto il profilo, per quanto, in sede penale, superato, della distinzione tra fatto proprio ed altrui (salvo a precisare l’esatta accezione, in materia, del termine “fatto“) dovrebbe almeno leggere la norma in esame come equivalente a: “La responsabilità penale è per personale fatto proprio“.

Ma è l’interpretazione sistematica del primo comma dell’art. 27 Cost. che ne svela l’ampia portata.

Collegando il primo al terzo comma dell’art. 27 Cost. agevolmente si scorge che, comunque s’intenda la funzione rieducativa di quest’ultima, essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la “rieducazione” di chi, non essendo almeno “in colpa” (rispetto al fatto) non ha, certo, “bisogno” di essere “rieducato“.

Soltanto quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma ciò è sicuramente da escludersi, nel nostro sistema costituzionale, data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili (oltre a quanto si dirà in tema d’ignoranza inevitabile della legge penale) alla predetta colpa dell’agente, nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento.

Dal collegamento tra il primo e terzo comma dell’art. 27 Cost. risulta, altresì, insieme con la necessaria “rimproverabilità” della personale violazione normativa, l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza, espressi dalle norme penali. La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che, appunto personalmente, esprimano il predetto, riprovevole contrasto od indifferenza. Il ristabilimento dei valori sociali “dispregiati” e l’opera rieducatrice ed ammonitrice sul reo hanno senso soltanto sulla base della dimostrata “soggettiva antigiuridicità” del fatto.

Discende che, anche quando non si ritenesse la “possibilità di conoscenza della legge penale” requisito autonomo d’imputazione costituzionalmente richiesto, ugualmente si dovrebbe giungere alla conclusione che, tutte le volte in cui entra in gioco il dovere d’osservare le leggi penali (che, per i cittadini, è specificazione di quello d’osservare le leggi della Repubblica, sancito dal primo comma dell’art. 54 Cost.) la violazione di tal dovere, implicita nella commissione del fatto di reato, non può certamente divenire rilevante, e dar luogo alla pena, in una pura dimensione obiettiva od in una “subiettiva”, limitata alla colpa del fatto. Trattandosi, appunto, dell’applicazione d’una pena, da qualunque teoria s’intenda muovere (eccezion fatta per quella della prevenzione generale in chiave di pura deterrenza, che, peraltro, come s’è già avvertito, non può considerarsi legittimamente utilizzabile per ascrivere una responsabilità penale) e dovendo la violazione del precitato dovere essere “rimproverabile”, l’impossibilità di conoscenza del precetto (e, pertanto, dell’illiceità del fatto) non ascrivibile alla volontà dell’interessato deve necessariamente escludere la punibilità. Il vigente sistema costituzionale non consente che l’obbligo di non ledere i valori penalmente garantiti sorga e si violi (attraverso la commissione del fatto di reato) senza alcun riferimento, se non all’effettiva conoscenza del contenuto dell’obbligo stesso, almeno alla “possibilità” della sua conoscenza. Se l’obbligo giuridico si distingue dalla “soggezione” perché, a differenza di quest’ultima, richiama la partecipazione volitiva del singolo alla sua realizzazione, far sorgere l’obbligo d’osservanza delle leggi (delle “singole”, particolari leggi) penali, in testa ad un determinato soggetto, senza la benché minima possibilità, da parte del soggetto stesso, di conoscerne il contenuto e subordinare la sua violazione soltanto ai requisiti “subiettivi” attinenti al fatto di reato, equivale da una parte a ridurre notevolmente valore e significato di questi ultimi e, d’altra parte, a strumentalizzare la persona umana a fini di pura deterrenza.

Quanto ora precisato già basterebbe a far ritenere l’art. 5 c.p. incostituzionale nella parte in cui impedisce ogni esame della rimproverabilità e, pertanto, scusabilità dell’ignoranza della (od errore sulla) legge penale. Anche quando non si sia dell’avviso che l’art. 5 c.p. operi nell’ambito della colpevolezza e lo si agganci, come nel codice Rocco, all’obbligatorietà della legge penale, ugualmente lo stesso articolo, per le ragioni innanzi indicate, si dovrebbe ritenere contrastante con l’art. 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui esclude ogni rilevanza all’ignoranza od errore sul precetto dovute all’impossibilità (non rimproverabile) di conoscerlo.

Ma il modo più appagante per convalidare tutto ciò è quello intrapreso, in tempi recenti, dalla dottrina che ritiene la “possibilità di conoscere la norma penale” autonomo presupposto necessario d’ogni forma d’imputazione e che estende la sfera d’operatività di tale “presupposto” a tutte le fattispecie penalmente rilevanti, comprese le dolose. Considerando il combinato disposto del primo e terzo comma dell’art. 27 Cost. nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto dagli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma Cost. ecc., alla “possibilità di conoscere la norma penale” va, infatti, attribuito un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d’imputazione costituzionalmente richiesti: tale “possibilità” è, infatti, presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso quest’ultimo come comprensivo anche degli elementi subiettivi attinenti al fatto di reato.

Basilari norme costituzionali relative alla materia penale, mentre tendono a garantire al cittadino, ed in genere ai c.d. destinatari delle norme penali, la sicurezza giuridica di non esser puniti ove vengano realizzati comportamenti penalmente irrilevanti, svelano la funzione d’orientamento culturale e di determinazione psicologica operata dalle leggi penali. Non è, infatti, senza significato che il principio di legalità, inteso come “riserva di legge statale” sia espressamente costituzionalizzato, in sede penale, dall’art. 25, secondo comma, Cost.: trattandosi dell’applicazione delle più gravi sanzioni giuridiche, la Costituzione intende particolarmente garantire i soggetti attraverso la praevia lex scripta. I principi di tassatività e d’irretroattività delle norme penali incriminatrici, nell’aggiungere altri contenuti al sistema delle fonti delle norme penali, evidenziano che il legislatore costituzionale intende garantire i cittadini, attraverso la “possibilità” di conoscenza delle stesse norme, la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione.

E tutto ciò si chiarisce ancor più (come è stato sottolineato in dottrina) ove si ricordi che, nel quadro dello “Stato di diritto“, anche il principio di riserva di legge penale e gli altri precedentemente indicati, sono espressione della contropartita (d’origine contrattualistica) che lo Stato offre in cambio, appunto, dell’obbligatorietà della legge penale: lo Stato assicura i cittadini che non li punirà senza preventivamente informarli su ciò che è vietato o comandato ma richiede dai singoli l’adempimento di particolari doveri (sui quali ci si soffermerà fra breve) mirati alla realizzazione dei precetti “principali” relativi ai fatti penalmente rilevanti.

CORTE COSTITUZIONALE sentenza 23-24 MARZO 1988 n. 364

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