Presunzione di innocenza
Il principio della presunzione di innocenza operante nell’ambito dell’ordinamento sia convenzionale (art. 6, paragrafo 2, CEDU), sia europeo (art. 48 CDFUE, unitamente agli artt. 3 e 4 della direttiva 2016/343/UE), vieta che la persona, accusata di aver commesso un reato e sottoposta ad un procedimento penale conclusosi con proscioglimento (in rito o in merito), possa poi essere trattata dalle pubbliche autorità come se fosse colpevole del reato precedentemente contestatole.
In particolare tale principio viene in rilievo in relazione alla fattispecie della prescrizione quale causa di estinzione del reato (art. 157, primo comma, cod. pen.); istituto questo la cui valenza sostanziale è stata confermata, anche recentemente, da questa Corte (sentenze n. 140 del 2021 e n. 278 del 2020).
Quanto al parametro convenzionale, viene in rilievo il principio secondo cui «ogni persona accusata di un reato si presume innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata» (art. 6, paragrafo 2, CEDU). Analogo riconoscimento di questa garanzia fondamentale è presente nel nostro ordinamento costituzionale come presunzione di non colpevolezza, che viene meno solo con la condanna definitiva (art. 27, secondo comma, Cost.).
Nell’interpretazione e applicazione datane dalla Corte di Strasburgo (ex plurimis, Corte EDU, grande camera, sentenza 12 luglio 2013, Allen contro Regno Unito), la norma convenzionale, peraltro, assume un più ampio rilievo rispetto al parametro nazionale, presentando una portata non strettamente endoprocessuale.
Da una parte, la presunzione di innocenza costituisce una «garanzia procedurale» destinata ad operare «nel contesto di un processo penale», producendo effetti sul piano dell’«onere della prova», sulla operatività delle «presunzioni legali di fatto e di diritto», sull’applicabilità del «privilegio contro l’autoincriminazione», nonché in ordine «alla pubblicità preprocessuale e alle espressioni premature, da parte della Corte processuale o di altri funzionari pubblici, della colpevolezza di un imputato».
Dall’altra, la presunzione di innocenza, «in linea con la necessità di assicurare che il diritto garantito» dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU «sia pratico e effettivo», estende i suoi effetti al di fuori del processo penale ed opera nel tempo successivo alla sua conclusione o interruzione, non in funzione di apprestare garanzie procedurali all’imputato, ma allo scopo di «proteggere le persone che sono state assolte da un’accusa penale, o nei confronti delle quali è stato interrotto un procedimento penale, dall’essere trattate dai pubblici ufficiali e dalle autorità come se fossero di fatto colpevoli del reato contestato».
Secondo la Corte EDU, terza sezione, sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini contro Repubblica di San Marino, «senza una tutela che garantisca il rispetto dell’assoluzione o della decisione di interruzione in qualsiasi altro procedimento, le garanzie del processo equo di cui all’art. 6 [paragrafo] 2, rischiano di diventare teoriche o illusorie», sicché, in seguito ad un procedimento penale conclusosi con un’assoluzione o con una interruzione, la persona che ne è stata oggetto è innocente agli occhi della legge e deve essere trattata in modo coerente con tale innocenza in tutti i successivi procedimenti che la riguardano, a meno che si tratti di procedimenti giudiziari che diano luogo ad una nuova imputazione penale, ai sensi della Convenzione.
Questo secondo aspetto della tutela della presunzione di innocenza entra, dunque, in gioco quando il procedimento penale si conclude con un risultato diverso da una condanna.
Al riguardo, è stato precisato che l’art. 6, paragrafo 2, CEDU, nella sua portata “ultraprocessuale”, tutela anche la reputazione della persona, sovrapponendosi, per questo profilo, alla protezione offerta dall’art. 8 (Corte EDU, sentenza Pasquini contro Repubblica di San Marino).
L’operatività di tale principio, sotto quest’ultimo aspetto, presuppone, in primo luogo, che nei confronti della persona già accusata di un reato (ma la cui colpevolezza sia stata esclusa in seguito ad assoluzione o non sia stata accertata a causa dell’interruzione del procedimento penale) penda un altro procedimento all’esito del quale una pubblica autorità è chiamata ad assumere un nuovo provvedimento nei confronti della stessa persona; in secondo luogo, che questo distinto procedimento sia legato a quello penale, conclusosi con l’assoluzione o con l’interruzione, da un «lien» (un nesso), in ragione del quale, in vista dell’assunzione del provvedimento successivo, debba essere esaminato l’esito del procedimento penale, oppure le prove che in esso sono state assunte o, ancora, debba essere valutata la partecipazione della persona agli atti, ai comportamenti e agli eventi che hanno portato all’accusa penale, oppure, infine, debbano «essere commentate le indicazioni esistenti sulla possibile colpevolezza del richiedente» (Corte EDU, sentenza Allen contro Regno Unito).
Ulteriore presupposto è che «il successivo procedimento giudiziario non dia luogo a una nuova imputazione penale nel senso autonomo della Convenzione» (Corte EDU, sentenza Pasquini).
Infatti, allorché, pur a seguito di proscioglimento per prescrizione del reato, il giudice sia chiamato a valutare i presupposti per l’emissione di un provvedimento accessorio avente natura punitiva, secondo i canoni interpretativi della Corte di Strasburgo (come, ad esempio, nell’ipotesi della confisca: Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl e altri contro Italia), per un verso le garanzie processuali che circondano la predetta valutazione non precludono l’accertamento della responsabilità dell’imputato in ordine al reato estinto, mentre, per altro verso, tale accertamento – nel suo profilo “sostanziale” di «accertamento di responsabilità» contenuto nella motivazione della sentenza, che prescinde dalla formale enunciazione della condanna nel dispositivo (sentenza n. 49 del 2015) – è anzi imposto dal diverso parametro convenzionale di cui all’art. 7 CEDU, che, ai fini dell’applicazione di una sanzione penale, esige la previa dichiarazione della relativa responsabilità (Corte EDU, grande camera, sentenza 28 giugno 2018, G.I.EM. srl e altri contro Italia).
Al di fuori di quest’ultima ipotesi, gli effetti dell’applicazione del secondo aspetto della presunzione di innocenza si traducono in una limitazione ai poteri cognitivi e dichiarativi dell’autorità investita del nuovo procedimento non avente natura penale. Questa autorità, infatti, non può emettere provvedimenti che presuppongano un giudizio di colpevolezza o che siano fondati su un nuovo apprezzamento della responsabilità penale della persona in ordine al reato precedentemente contestatole (ancora Corte EDU, sentenze Allen contro Regno Unito e Pasquini contro Repubblica di San Marino).
L’elaborazione di questo secondo aspetto della presunzione di innocenza ex art. 6, paragrafo 2, CEDU, è stata compiuta dalla giurisprudenza di Strasburgo, in ampia misura, su fattispecie in cui, concluso il procedimento penale con un proscioglimento in merito (assoluzione) o in rito (interruzione), era residuata la necessità di provvedere sulla domanda civile di risarcimento del danno proposta nei confronti dell’imputato (ex plurimis, Corte EDU, terza sezione, sentenza 11 febbraio 2003, Ringvold contro Norvegia, e quinta sezione, sentenza 12 aprile 2012, Lagardère contro Francia).
Con riguardo a queste fattispecie, la Corte europea ha altresì sottolineato che l’applicazione del diritto alla presunzione di innocenza in favore dell’imputato non deve ridondare a danno del diritto del danneggiato ad ottenere il risarcimento del pregiudizio cagionatogli dal reato. Tuttavia, ammonisce la Corte, «se la decisione nazionale sul risarcimento dovesse contenere una dichiarazione che imputa la responsabilità penale alla parte convenuta, ciò solleverebbe una questione che rientra nell’ambito dell’articolo 6 [paragrafo] 2 della Convenzione» (Corte EDU, Pasquini contro Repubblica di San Marino).
In quest’ultima pronuncia la ritenuta violazione dell’art. 6, paragrafo 2, CEDU è stata affermata in una fattispecie in cui nel giudizio di appello nei confronti di un imputato condannato in primo grado per appropriazione indebita, con risarcimento del danno in favore della parte civile, il giudice, dopo aver dichiarato non doversi procedere per prescrizione del reato, nel provvedere sull’impugnazione ai soli effetti civili, non aveva contenuto l’accertamento nei limiti cognitivi e dichiarativi imposti dalla necessità di rispettare il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza, spingendosi a dichiarare, tra l’altro, sia pure al solo fine di confermare la condanna risarcitoria, che le condotte ascritte all’imputato, da ritenersi provate, integravano gli estremi del reato contestatogli.
Quanto ai parametri del diritto dell’Unione europea, deve considerarsi che il principio di presunzione di innocenza è parimenti presente anche nell’ordinamento dell’Unione stessa.
Esso è enunciato, anzitutto, dall’art. 48, comma 1, CDFUE, che, con norma corrispondente all’art. 6, paragrafo 2, CEDU, stabilisce che «ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata». Inoltre, tale tutela è riconosciuta dalla direttiva 2016/343/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, che – come già ricordato – è in corso di recepimento in forza della legge n. 53 del 2021.
L’art. 3 della direttiva prevede, infatti, che «gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza».
Il successivo art. 4, paragrafo 1, primo periodo, stabilisce che «gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole».
Quanto al significato e alla portata che ha il principio in esame nell’ordinamento europeo, essi sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli che il medesimo principio assume nell’ordinamento convenzionale, non potendo l’ordinamento dell’Unione riconoscere una protezione che sia meno estesa (art. 52, comma 3, CDFUE).
La Corte di giustizia ha precisato, al riguardo, che, per chiarire «come debba stabilirsi se una persona sia presentata o meno come colpevole in una decisione giudiziaria, ai fini dell’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2016/343», occorre ispirarsi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 6, paragrafo 2, CEDU (Corte di giustizia, sentenza 5 settembre 2019, in causa C-377/18).
CORTE COSTITUZIONALE sentenza 182 del 2021