Fanny Targioni Tozzetti e Giacomo Leopardi

Fanny Targioni Tozzetti Fanny Targioni Tozzetti, all’anagrafe Francesca Ronchivecchi, detta Fanny (Firenze, 9 Maggio 1801 – Firenze, 29 Marzo 1889) è stata una famosa nobildonna ed intellettuale italiana, passata alla storia per essere stata l’ultimo amore di Giacomo Leopardi.

Moglie del medico e botanico Antonio Targioni Tozzetti, Fanny vive a Firenze e il suo salotto letterario in via Ghibellina diventa uno dei più importanti centri culturali fiorentini, frequentato da artisti e intellettuali. Ciò la porta a conoscere le grandi personalità dell’epoca, instaurando rapporti amicali e non solo.

Giacomo Leopardi e Fanny Targioni Tozzetti si conoscono nel 1830 a Firenze e scatta nell’animo del poeta marchigiano un improvviso colpo di fulmine per la nobildonna fiorentina, la quale viene corteggiata da molti uomini e certamente preferisce le attenzioni di Antonio Ranieri, l’intimo amico di Leopardi.

Il poeta di Recanati si adopera per ricercare autografi di personaggi illustri che Fanny ama collezionare e riesce a procurale quelli di Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti e di Alphonse de Lamartine, il tutto per tentare di richiamare il suo interesse, ma con poco successo e senza trovare una corrispondenza nei sentimenti amorosi.

La loro relazione, solo amichevole, dura tra il 1830 e il 1832, anno in cui Leopardi parte alla volta di Napoli e dove tra il 1834 e il 1835 scrive la raccolta di poesie c.d. Ciclo di Aspasia dedicata all’amata. Si tratta di poesie autobiografiche, le uniche dedicate ad una donna reale che il Leopardi ha conosciuto e verso la quale ha nutrito veri e profondi sentimenti amorosi e per la quale ha scelto il soprannome di Aspasia (richiamando l’ Aspasia di Mileto amante e moglie di Pericle). Il ciclo è composto da cinque poesie: Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia.

Sono passati due anni dal trasferimento da Firenze e il poeta di Recanati rielabora sotto il profilo della rassegnazione l’amore platonico per la donna fiorentina, un dolore che aggrava le sue già precarie condizioni di salute (il poeta muore a Napoli il 14 Giugno 1837).

“ASPASIA”

Torna dinanzi al mio pensier talora
il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
per abitati lochi a me lampeggia
in altri volti; o per deserti campi,
al dì sereno, alle tacenti stelle,
da soave armonia quasi ridesta,
nell’alma a sgomentarsi ancor vicina
quella superba vision risorge.
Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
mia delizia ed erinni! E mai non sento
mover profumo di fiorita piaggia,
né di fiori olezzar vie cittadine,
ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno
che ne’ vezzosi appartamenti accolta,
tutti odorati de’ novelli fiori
di primavera, del color vestita
della bruna viola, a me si offerse
l’angelica tua forma, inchino il fianco
sovra nitide pelli, e circonfusa
d’arcana voluttà; quando tu, dotta
allettatrice, fervidi sonanti
baci scoccavi nelle curve labbra
de’ tuoi bambini, il niveo collo intanto
porgendo, e lor di tue cagioni ignari
con la man leggiadrissima stringevi
al seno ascoso e desiato. Apparve
novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
divino al pensier mio. Così nel fianco
non punto inerme a viva forza impresse
il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
ululando portai finch’a quel giorno
si fu due volte ricondotto il sole.

Raggio divino al mio pensiero apparve,
donna, la tua beltà. Simile effetto
fan la bellezza e i musicali accordi,
ch’alto mistero d’ignorati Elisi
paion sovente rivelar. Vagheggia
il piagato mortal quindi la figlia
della sua mente, l’amorosa idea,
che gran parte d’Olimpo in se racchiude,
tutta al volto ai costumi alla favella,
pari alla donna che il rapito amante
vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
nei corporali amplessi, inchina ed ama.
alfin l’errore e gli scambiati oggetti
conoscendo, s’adira; e spesso incolpa
la donna a torto. A quella eccelsa imago
sorge di rado il femminile ingegno;
e ciò che inspira ai generosi amanti
la sua stessa beltà, donna non pensa,
né comprender potria. Non cape in quelle
anguste fronti ugual concetto. E male
al vivo sfolgorar di quegli sguardi
spera l’uomo ingannato, e mal richiede
sensi profondi, sconosciuti, e molto
più che virili, in chi dell’uomo, al tutto
da natura è minor. Che se più molli
e più tenui le membra, essa la mente
men capace e men forte anco riceve.

Né tu finor giammai quel che tu stessa
inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
che smisurato amor, che affanni intensi,
che indicibili moti e che deliri
movesti in me; né verrà tempo alcuno
che tu l’intenda. In simil guisa ignora
esecutor di musici concenti
quel ch’ei con mano o con la voce adopra
in chi l’ascolta. Or quell’Aspasia è morta
che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
della mia vita un dì: se non se quanto,
pur come cara larva, ad ora ad ora
tornar costuma e disparir. Tu vivi,
bella non solo ancor, ma bella tanto,
al parer mio, che tutte l’altre avanzi.
Pur quell’ardor che da te nacque è spento:
perch’io te non amai, ma quella Diva
che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque
sua celeste beltà, ch’io, per insino
già dal principio conoscente e chiaro
dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi,
pur ne’ tuoi contemplando i suoi begli occhi,
cupido ti seguii finch’ella visse,
ingannato non già, ma dal piacere
di quella dolce somiglianza, un lungo
servaggio ed aspro a tollerar condotto.

Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola
sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
l’altero capo, a cui spontaneo porsi
l’indomito mio cor. Narra che prima,
e spero ultima certo, il ciglio mio
supplichevol vedesti, a te dinanzi
me timido, tremante (ardo in ridirlo
di sdegno e di rossor), me di me privo,
ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
spiar sommessamente, a’ tuoi superbi
fastidi impallidir, brillare in volto
ad un segno cortese, ad ogni sguardo
mutar forma e color. Cadde l’incanto,
e spezzato con esso, a terra sparso
il giogo: onde m’allegro. E sebben pieni
di tedio, alfin dopo il servire e dopo
un lungo vaneggiar, contento abbraccio
senno con libertà. Che se d’affetti
orba la vita, e di gentili errori,
e’ notte senza stelle a mezzo il verno,
già del fato mortale a me bastante
e conforto e vendetta è che su l’erba
qui neghittoso immobile giacendo,
il mar la terra e il ciel miro e sorrido.

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