Inoltro post diffamatori sulla bacheca “facebook”
L’inoltro di “post” diffamatori (nella specie due post) sulla bacheca “facebook” dell’imputato nei confronti di un soggetto che non ha accesso alla piattaforma social in questione integra il delitto di atti persecutori?
Secondo i principi affermati dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità integrano il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la “reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 33842 del 03/04/2018, Rv. 273622; Sez. 5, Sentenza n. 46331 del 05/06/2013, Rv. 257560).
Preso atto della possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità si afferma che il delitto di atti persecutori sia integrato da un’opera di reiterata delegittimazione della persona offesa realizzata dal soggetto attivo attraverso una serie protratta di condotte diffamatorie e moleste realizzate attraverso l’invio di numerosi “post” diffamatori su “social network” (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 1813 del 17/11/2021, Rv. 282527).
Ma nell’ipotesi in cui la persona offesa non possa accedere all’ambiente telematico contenente i “post” incriminati?
Preliminarmente occorre fare una distinzione del caso in cui i messaggi persecutori siano inviati al profilo della persona offesa da quello in cui, pur avendo come destinataria una determinata persona, i messaggi in questione siano pubblicati sul profilo dell’imputato. In tale ultima evenienza occorrerà verificarne la conoscibilità, “certamente scontata quando il profilo sia ampiamente accessibile”.
Invero, come affermato dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, nel delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale di evento, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (cfr., ex plurims, Sez. 1, n. 28682 del 25/09/2020, Rv. 279726; Sez. 5, n. 20993 del 27/11/2012, Rv. 255436) sicché, decisiva, nell’accertamento che il giudice di merito deve svolgere sul punto, appare la ricostruzione delle modalità dell’azione criminosa.
La consapevolezza delle più condotte di minaccia o di molestia a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, implica necessariamente la cognizione che tali condotte siano percepibili dai destinatari della minaccia o della molestia.
Sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte ha da tempo affermato il condivisibile principio, secondo cui integra il delitto di atti persecutori la reiterata ed assillante comunicazione di messaggi di contenuto persecutorio, ingiurioso o minatorio, oggettivamente irridenti ed enfatizzanti la patologia della persona offesa, diretta a plurimi destinatari ad essa legati da un rapporto qualificato di vicinanza, ove l’agente agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza, della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 8919 del 16/02/2021, Rv. 280497; Sez. 3, n. 1629 del 06/10/2015, Rv. 265809).
Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza del 06/09/2024, n. 33986