Il cinema e la moda si sono sempre contaminati reciprocamente ma con tempistiche differenti. In un primo tempo furono i costumisti cinematografici a influenzare la moda secondo un movimento che va dal film alla vita reale; successivamente furono gli stilisti ad entrare nello schermo, sia indirettamente, ossia il cinema adoperò le loro creazioni, sia direttamente, cioè assurgendo al ruolo di costumista.
A differenza delle “star”, che si imposero come tali fin dalle origini della settima arte, la figura del costumista si affermò solo intorno agli anni ’20, facendosi strada negli anni ed arrivando solo nel 1948 ad ottenere il riconoscimento alla candidatura agli Oscar per i costumi.
A distanza di un decennio dalla comparsa di questa figura professionale, ogni studio cinematografico edificò un dipartimento dei costumi. Primo fra tutti fu Howard Greer per la Paramount Pictures (1886 – 1974), che impiegò 200 sarti professionisti. Fra tutte, vestì Ingrid Bergman nel film Io ti salverò, Katharine Hepburn, Ginger Rogers e Shirley Temple nel giorno delle sue nozze. Ottenuto un notevole successo, nel 1927 aprì una casa di moda a Hollywood, proseguendo sempre in parallelo la sua attività di costumista e collaborando con diversi studi.
Altri nomi celebri nel panorama cinematografico furono Edith Head e Travis Banton per la Paramount Pictures, Charles Le Maire per la Fox, Milo Anderson per la Warner Bros, Jean-Louis Berthault per la Columbia, Walter Plunkett per la MGM.
Il costumista si discosta molto dalla figura dello stilista in quanto il suo lavoro deve tener conto di due fattori fondamentali, ovvero deve valorizzare la verosimiglianza del personaggio e deve evidenziare i valori e i simboli che tale personaggio ha intrinsechi in sé.
Il costumista quindi, oltre a conoscere a fondo la storia del costume e della moda, deve, attraverso l’abito, estrapolare lo stato sociale e la psicologia del personaggio e deve soprattutto conoscere i codici della fotografia e del cinema lavorando in stretto contatto con tutta l’equipe.
Il contatto più stretto tra moda e cinema si ha attraverso l’attore che, tramite l’abbigliamento, suscita nello spettatore un desiderio di emulazione.
Negli anni ’30, ad esempio, Adrian, costumista di Rodolfo Valentino e Greta Garbo, cedette ai magazzini Macy’s il modello dell’abito indossato dalla Crawford nel film “Ritorno”, che venne realizzato in contemporanea all’uscita del film. Il successo fu indiscusso.
Nati originariamente come costumi da film, molti abiti si imposero come modelli di stile per intere stagioni. Alcuni esempi possono essere il vestito bianco di chiffon di Marilyn Monroe in “Quando la moglie è in vacanza”, o ancora quello di Elizabeth Taylor nel film “La gatta sul tetto che scotta”.
Ma la moda dettata dal grande schermo non guardava solo verso il pubblico femminile. Basti pensare all’impermeabile di Humphrey Bogart, o al giubbotto in pelle di Marlon Brando nel film “Selvaggio”.
Tra moda e costume esistono numerose analogie, prima fra tutte la costruzione artificiale di un’estetica in cui in primo piano viene messo il corpo. In questo modo il cinema si trasforma in un palcoscenico per lanciare e diffondere moda.
Oltre ai costumisti d’oltreoceano sopracitati, di notevole spicco furono anche alcuni italiani, apprezzati in tutto il mondo e pluripremiati agli Oscar, come ad esempio Vittorio Nino Novarese, Milena Canonero, Piero Gherardi, Danilo Donati, Gabriella Pescucci, Giulia Maffai.
Diverso è il discorso per quel che riguarda la collaborazione di stilisti con il cinema. Piero Tosi afferma che “chi nasce costumista non potrà mai essere stilista e viceversa”, come dimostra il fallimento di Chanel a Hollywood.
È tuttavia impossibile negare che a partire dagli anni ’60, gli stilisti abbiano influenzato il cinema, che ha adottato su larga scala i loro modelli per ottenere un “effetto realtà”, come ad esempio gli abiti di Armani, entrati nel guardaroba di film come “American gigolo” o “Gli intoccabili”, o ancora abbiano ispirato film che rappresentavano il mondo della moda, come “Amiche” e “Blow-up” di Michelangelo Antonioni o “Prêt-à-porter” di Robert Altman.