Convivenza more uxorio e delitto di maltrattamenti in famiglia
Ipotesi di cessazione della relazione di convivenza more uxorio
Sia pur non in modo uniforme, la pregressa giurisprudenza era prevalentemente orientata nel ritenere configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche nei casi di cessazione della convivenza more uxorio, quando tra i soggetti permaneva un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337 ter c.c. (da ultimo, Sez.6, n. 7259 del 26/11/2021, dep.2022).
La decisione richiamata si inseriva in un orientamento di legittimità ad avviso del quale il reato di maltrattamenti in famiglia sarebbe configurabile, nonostante l’avvenuta cessazione della convivenza, ove la relazione tra i soggetti rimanga comunque connotata da vincoli solidaristici, mentre si configurerebbe il reato di atti persecutori, nella forma aggravata prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 2, quando non residui neppure un’aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l’imputato e la persona offesa, non risultando insorti vincoli affettivi e di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (tra le più recenti si veda Sez. 6, n. 37077 del 31/11/2020, Rv. 280431; Sez. 6, n. 37628 del 25/6/2019, Rv. 276697; Sez. 6, n. 25498 del 20/4/2017, Rv. 270673).
Secondo altro indirizzo giurisprudenziale, le condotte vessatorie poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro, dopo la cessazione della convivenza, non sono riconducibili al reato di maltrattamenti in famiglia, potendosi ravvisare l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p., comma 2, ovvero, in difetto dei requisiti previsti da tale fattispecie, ulteriori e diverse ipotesi di reato (quali lesioni personali, minacce). Si è ritenuto, infatti, che terminata la convivenza viene meno la comunanza di vita e di affetti, nonchè il rapporto di reciproco affidamento che giustificano la configurabilità della più grave ipotesi di cui all’art. 572 c.p. (Sez.6, n. 15883 del 16/03/2022, Rv. 283436; Sez.6, n. Sez. 6, n. 10626 del 16/2/2022, Rv. 283003-02; Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, Rv. 282398; Sez. 6, n. 39532 del 6/9/2021, B., Rv. 282254; Sez. 6, n. 10222 del 23/1/2019, Rv. 275617).
5.3. Si ritiene che l’orientamento da ultimo richiamato meriti di essere condiviso ed ulteriormente rafforzato, in quanto garantisce una lettura della fattispecie maggiormente rispettosa del dato normativo e della ratio sottesa alla maggior gravità del reato commesso in un ambito “familiare” o, comunque, ad esso assimilabile.
Per quanto attiene al primo aspetto, è necessario partire dalla sollecitazione contenuta nella recente sentenza n. 98 del 2021, con la quale la Corte costituzionale, sia pur non essendo stata direttamente investita della questione interpretativa dell’art. 572 c.p., bensì di una problematica di tipo processuale ricollegata a tale reato, sottolineava la necessità di verificare se e quali relazioni affettive non tradizionali potessero rientrare nella nozione di “famiglia” o “convivenza“.
La Corte costituzionale ha sottolineato come il rispetto del principio dettato dall’art. 25 Cost., impedisce di riferire la norma incriminatrice a condotte non ascrivibili in alcuno dei significati letterali utilizzati dal Legislatore per la tipizzazione dell’illecito, in tal modo ponendo l’accento sulla necessità che i termini impiegati per descrivere la fattispecie di reato siano interpretati in modo da non alterare l’intrinseco significato delle nozioni che descrivono l’elemento oggettivo del reato.
Ponendo l’accento sul divieto di analogia, la Corte costituzionale ha sottolineato la necessità di un’interpretazione dell’art. 572 c.p.p., ancorata ai concetti di “famiglia” e “convivenza“, evitando che, pur nel comprensibile intento di estendere l’ambito della tutela penale, si possa giungere ad una vera e propria analogia in malam partem, riconducendo al reato di maltrattamenti in famiglia anche condotte poste in essere ai danni di soggetti nei cui confronti non è configurabile una relazione – attuale e privilegiata – con l’autore dell’illecito che possa giustificare la più grave risposta sanzionatoria.
Lo spunto proveniente dalla Corte costituzionale impone una verifica in ordine alla correttezza dell’interpretazione, finora prevalente, favorevole alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche nel caso in cui la condotta illecita intervenga tra soggetti che, avendo instaurato in passato una relazione more uxorio, l’abbiano successivamente interrotta.
Invero, se si valorizza il dato normativo contenuto all’art. 572 c.p., deve necessariamente concludersi che la norma descrive una condotta illecita intercorsa tra soggetti “conviventi”, lì dove il sostantivo utilizzato, in mancanza di ulteriori specificazioni, fa necessariamente riferimento ad una relazione in atto e non già cessata.
Del resto, nei casi in cui il legislatore ha inteso far riferimento anche a rapporti di natura affettiva cessati al momento della commissione del reato, ha specificato tale peculiare aspetto della condotta. In tal senso è emblematico il disposto dell’art. 612 bis c.p., comma 2, lì dove è stata prevista una specifica aggravante per l’ipotesi in cui gli atti persecutori siano stati commessi “da persona che è o è stata legata da relazione affettiva” alla vittima del reato.
Nell’art. 572 c.p., non vi è traccia di una simile specificazione e, anzi, il dato letterale fa inequivocabilmente riferimento ad una convivenza in atto e non anche a una relazione cessata prima della commissione del reato.
La conferma della correttezza dell’interpretazione letterale della norma si può desumere dalla ratio della norma incriminatrice, posto che l’art. 572 c.p., letto nella sua complessità, è una disposizione chiaramente volta ad apprestare una tutela rafforzata in presenza di un rapporto di prossimità tra autore del reato e persona offesa, qual è quello che tipicamente si instaura tra persone legate da vincoli familiari o, comunque, conviventi.
Nel procedere all’interpretazione sistematica della norma, è essenziale tener conto del complessivo disposto dell’art. 572 c.p., comma 1, lì dove la fattispecie fa riferimento non solo a “una persona della famiglia o comunque convivente”, ma anche a “una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione“.
Ebbene, è proprio l’elencazione contenuta nella seconda parte dell’art. 572 c.p., che fa comprendere la ratio dell’incriminazione, volta a sanzionare quelle condotte maltrattanti la cui commissione è agevolata dal rapporto di stabile prossimità che si instaura tra autore del reato e persona offesa, ne consegue che è la frequentazione prolungata e la continua possibilità per il soggetto maltrattante di interagire con la vittima che descrivono la fattispecie.
La prossimità tra vittima e soggetto maltrattante è anche l’elemento che giustifica il trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello applicabile a colui che pone in essere le medesime condotte delittuose in assenza di una stabile relazione – di tipo familiare, ma anche di altra natura – con la persona offesa, proprio perchè il legame interpersonale espone maggiormente la vittima alle condotte delittuose ed acuisce l’offensività delle stesse.
A riprova di quanto detto, è opportuno richiamare la consolidata giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia in ambito scolastico, nei luoghi di lavoro, come pure all’interno di strutture sanitarie, a riprova di come il reato di maltrattamenti presuppone necessariamente una relazione personale che comporta per la vittima e l’autore del reato la condivisione prolungata di spazi e contesti deputato allo svolgimento di determinate attività.
Applicando tali considerazioni all’ipotesi dei soggetti che abbiano cessato una pregressa relazione di convivenza more uxorio, è agevole giungere alla conclusione secondo cui l’interruzione della convivenza determina il venir meno del rapporto di necessaria prossimità tra vittima ed autore degli illeciti e, quindi, impedisce la configurabilità del reato di maltrattamenti.
A diverse conclusioni non può condurre il fatto che gli ex conviventi siano tenuti ad intrattenere rapporti per effetto della condivisione della potestà genitoriale. Invero, i conviventi mantengono un rapporto parentale esclusivamente con la prole e, al più, possono avere necessità di relazionarsi tra di loro per quelle che sono le problematiche di gestione dei figli minori. Si tratta, tuttavia, di rapporti episodici, tendenzialmente circoscritti nel tempo e nello Spa zio e tali da non determinare quella stabilità di frequentazione che costituisce il presupposto logico per l’instaurazione di una condotta maltrattante.
Corte di Cassazione Sez. VI Penale – 30 novembre 2022 n. 45520