Il principio di offensività trova il suo principale fondamento nell’assunto che ad ogni reato deve corrispondere un’offesa ad un bene giuridico “nullum crimen sine iniura“.
Il principio di offensività si ricollega al principio della materialità del fatto sancito dall’art. 25 della Carta Costituzionale, secondo comma, dove si parla di “fatto commesso” con riferimento ad un comportamento umano che si estrinsechi nel mondo esteriore, “cogitationis poenam nemo patitur” – (“nessuno può subire una pena per i suoi pensieri”).
Deve premettersi che la Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza del principio di offensività in astratto, quale canone che dovrebbe orientare il legislatore nella selezione delle fattispecie incriminatrici, ha sempre ritenuto che l’individuazione delle condotte punibili, come pure la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, rientrino nella discrezionalità legislativa, ed ha adottato una linea di self-restraint, per cui la mancanza di offensività è ritenuta censurabile solo nella misura in cui le scelte normative confliggano in modo manifesto con il canone della ragionevolezza; in tale quadro, spetta al giudice comune la valutazione sulla sussistenza dell’offensività in concreto. (Cass. S.U., n. 12348/2020).
Nella sentenza n. 62 del 1986, nel dichiarare non fondata una questione relativa alla normativa sulle armi ed esplosivi la Corte Costituzionale afferma che “La configurazione delle fattispecie criminose e la valutazione della congruenza fra reati e conseguenze penali appartengono alla politica legislativa e, pertanto, all’incensurabile discrezionalità del legislatore ordinario, con l’unico limite della manifesta irragionevolezza; … le opzioni legislative, in sede di configurazione delle fattispecie criminose tipiche, devono tener conto non soltanto del bene o dei beni giuridici tutelati attraverso l’incriminazione delle fattispecie stesse ma anche delle finalità immediate che, nel contesto storico in cui le opzioni in parola vengono operate, il legislatore persegue nonché degli effetti indiretti che i fatti incriminati vanno a produrre nell’ambiente sociale in cui si realizzano. Necessità di prevenzione generale (evitare recidive e contagio criminoso) e di riduzione dell’allarme sociale cagionato dai reati convergono, insieme alle ragioni innanzi indicate, a motivare le opzioni legislative nella determinazione delle ipotesi criminose tipiche. Né esistono strutture ontologiche delle condotte criminose tali da vincolare il legislatore a valutarle allo stesso modo; quand’anche si fosse d’accordo sull’esistenza di strutture ontologiche dei comportamenti criminosi, rimarrebbe pur sempre salva la libertà del legislatore di valutare giuridicamente le medesime in maniera coerente alle varie finalità immediate perseguite nei diversi momenti storici ed alle svariate conseguenze, dannose o pericolose, dirette od indirette, che, nei tempi e nei luoghi nei quali i comportamenti criminosi si realizzano, questi ultimi sono idonei a produrre“. E in merito al principio di offensività afferma che “lo stesso principio debba reggere ogni interpretazione di norme penali. Spetta al giudice, dopo aver ricavato dal sistema tutto e dalla norma particolare interpretata, il bene od i beni tutelati attraverso l’incriminazione d’una determinata fattispecie tipica, determinare, in concreto, ciò che, non raggiungendo la soglia dell’offensività dei beni in discussione, è fuori del penalmente rilevante“.
La valutazione del legislatore “varia nel tempo (oltreché nello spazio) anche in relazione alla normalità od alla eccezionalità della realtà concreta“, tenuto conto cioè dell’intero sistema dell’esperienza giuridica, legislativa e non, “della concreta realtà storica” (sent. n. 171/1986).
Nella sentenza n. n. 109 del 2016, ricorda come il principio di offensività operi su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”). Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività “in concreto”). Quanto al primo versante, il principio di offensività “in astratto” non implica che l’unico modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva: prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto. In tale ipotesi, tuttavia, affinché il principio in questione possa ritenersi rispettato, occorrerà “che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit” (sent. n. 225 del 2008; sent. n. 333 del 1991).
Ed ancora nella giurisprudenza costituzionale si ricorda che non arbitrariamente “il legislatore, nell’intento di emanare una adeguata disciplina di talune fattispecie, almeno di regola, si riferisce alla esperienza dalla quale la normazione parte e sulla quale quest’ultima va ad incidere. Infatti, soltanto in base a sorpassate concezioni dottrinali sarebbe sostenibile che il legislatore possa ignorare la realtà, non verificando l’esperienza dalla quale la normazione statale prende avvio: è appunto questa che il legislatore tende a modificare” (sent. n. 132/1986). Come pure si sottolineano, da un lato, la funzione di determinazione psicologica operata dalle leggi penali (sent. n. 364/1988) e, dall’altro, il rilievo da riconoscere alla situazione di “emergenza” in cui la fattispecie incriminatrice possa essere stata emanata (sent. n. 171/1986), con la precisazione che, perché le “misure insolite” dettate dallo stato di emergenza perdano legittimità, occorre che esse siano “ingiustificatamente” protratte nel tempo (sent. n. 15/1982).
E per quanto riguarda in particolare la configurazione di fattispecie criminose strutturate con riferimento ad un evento di pericolo astratto la giurisprudenza costituzionale, nel ritenere che le incriminazioni di pericolo presunto non sono incompatibili in via di principio con il dettato costituzionale, ha anche riconosciuto che è riservata al legislatore l’individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo sia della soglia di pericolosità alla quale far riferimento, purché, peraltro, l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali od arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano collegabili all’id quod plerumque accidit (sent. n. 1/1971, n. 139/1982, n. 126/1983, n. 71/1978).
Ne consegue che non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto (sent. n. 360/1995).