Lo ius defendendi dell’imputato (ex art. 24 della Cost.) nell’ambito di un processo penale a suo carico comporta anche il diritto di mentire.
Secondo un pacifico della giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 1333 del 16/01/1998; Cass., n. 2740 del 14/10/2009) l’imputato può negare, anche mentendo, la verità delle dichiarazioni accusatorie mosse nei suo riguardi, ed in tal caso l’accusa di calunnia, implicita in tale condotta, integra un’ipotesi di legittimo esercizio del diritto di difesa e si sottrae perciò alla sfera di punibilità in applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 51 C.p.
Passaggio ulteriore è, tuttavia, quello di individuare il limite entro il quale l’imputato, nel negare la verità delle dichiarazioni accusatorie, travalichi il nesso funzionale tra tale negazione e l’attività difensiva.
In alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità si afferma che il nesso indicato sarebbe superato quando l’imputato non si limiti a ribadire la insussistenza delle accuse a suo carico, ma assuma ulteriori iniziative dirette a coinvolgere l’accusatore, di cui pure si conosce l’innocenza, nella incolpazione specifica, circostanziata e determinata di un fatto concreto, sicché da ciò derivi la possibilità dell’inizio di una indagine penale da parte dell’autorità (Cass., n. 18755 del 16/04/2015).
Si è fatto già notare in giurisprudenza come tuttavia non assuma decisiva rilevanza, al fine di ritenere slegata la dichiarazione accusatoria dall’esercizio del diritto di difesa, che la falsa dichiarazione accusatoria, per essere scriminata, sia “generica” (Cass., n. 1767 de 11/12/2012), “non accompagnata, cioè, da elementi fattuali circostanziali tali da farla apparire come vera” (Cass., n. 26019 del 13/06/2008), ovvero che dalle dichiarazioni discenda la “possibilità di inizio di un procedimento penale“, atteso che se il fatto oggetto della falsa incolpazione fosse strutturalmente inidoneo ad originare un procedimento penale, il reato di calunnia di per sé, oggettivamente, non sussisterebbe e, quindi, il tema della scriminante dell’esercizio del diritto di difesa non avrebbe ragione di porsi.
Con maggiore congruenza, rispetto al tema della rilevanza della scriminante, si è, dunque, affermato l’indirizzo secondo cui il criterio di stretta correlazione funzionale esige “che il falso addebito sia formulato in termini che non eccedano l’utilità, l’essenzialità per una efficace confutazione dell’accusa, indipendentemente dal grado di articolazione dell’indicazione accusatoria mendace” (Cass., n. 14042 del 02/10/2014).
La correlazione funzionale, di cui si è detto, deve essere valutata con riferimento al caso concreto: essa va esclusa quando il contenuto dell’attività difensiva sia non necessitato, sia cioè non privo di ragionevoli alternative.
L’attività decettiva deve essere contenutisticamente vincolata, una volta maturata, da parte dell’interessato, la scelta di contestazione dell’accusa.
Da qui il principio secondo cui l’affermazione infondata di colpa a carico di altri, sia essa esplicita od implicita, deve risultare in sostanza priva di ragionevoli alternative quale mezzo di negazione dell’addebito, a prescindere dal grado della sua specificazione e fermo restando il divieto di ogni attività decettiva che esuli dall’enunciazione della falsa accusa “essenziale” (così, Cass., n. 14042 del 02/10/2014), ripristinandosi altrimenti il limite sancito dall’art. 384, comma primo, C.p., in forza del quale non è applicabile al delitto di calunnia, di cui all’art. 368 C.p., l’esimente di aver agito per la necessità di salvare sé o un congiunto da un grave e inevitabile nocumento alla libertà e all’onore. (Cass., n. 13540 del 2020).