La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la sussistenza del reato di violenza sessuale pur in mancanza di atti di contatto fisico tra imputato e persona offesa, e più specificatamente nel caso di toccamento di zona del corpo non qualificata propriamente erogena tanto da inquadrare la fattispecie nel reato di tentata violenza sessuale prevista dall’art. 56 e 609 bis C.p.
Nel caso di specie l’imputato veniva condannato per avere seguito la persona offesa, per un tratto di strada, fino alla porta dell’abitazione ove costei era diretta, quindi raggiuntala, l’aveva afferrata per i polpacci, intimandole di stare zitta, desistendo per la ferma e decisa reazione della donna, che si liberava dalla presa dell’uomo e, urlando, faceva intervenire in suo aiuto un poliziotto.
Secondo la difesa dell’imputato il toccamento di una caviglia non può considerarsi atto di intrusione nella sfera sessuale altrui, ciò perché questa zona del corpo non qualificata erogena, in quanto che se l’imputato avesse palpeggiato altre parti anatomiche della persona offesa, generanti sensazioni erotiche, avrebbe dovuto rispondere di reato consumato e non tentato.
Nel caso di specie si ritiene che il gesto compiuto dal prevenuto, preceduto da pedinamento, fischi da richiamo e apprezzamento, fosse un chiaro approccio sessuale, prodromico a più approfonditi contatti fisici, laddove la vittima non si fosse opposta, rilevando, peraltro, la sussistenza nella condotta del prevenuto di insidiosa rapidità, così da sorprendere la donna.
Devesi rilevare che è configurabile il tentativo di violenza sessuale, di cui all’art. 609 bis, C.p., quando, pur in mancanza di atti di contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta denoti il requisito soggettivo della intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo della idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale, elementi ravvisati dal giudicante nella specie.
Cassazione penale, Sez. III, sentenza 3 Luglio 2008, n. 26766.