Principio di determinatezza nel reato di stalking

Principio di determinatezza edifici in stato di abbandono Invasione La moglie adultera Offesa Pene per la diffamazione Conoscenza Diffusione del proprio Surrogazione di Deroghe al bilanciamento delle circostanze Il reato di plagio Verbale di conciliazione giudiziale Diversa qualificazione del fatto OPG Sanzione accessoria della revoca della patente del custode Pignorabilità dei redditi da lavoro Avviso orale rafforzato Gravita della diffamazione Reddito di inclusione Abuso di ufficio Cognome del figlio Modifica dell’originaria imputazione Messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi Responsabilità civile dei magistrati Risarcimento del danno Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale Esercizio del commercio in aree di valore culturale Codice dei beni culturali Limiti al diritto di manifestare liberamente La libertà di manifestazione del pensiero La tutela dei beni culturali Prostituzione volontaria Immobili ed aree di notevole interesse pubblico Reddito di cittadinanza Diffamazione a mezzo stampa giudizio abbreviato e immediato Controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni Libertà e la segretezza della corrispondenza violenza sessuale di gruppoPrincipio di determinatezza nel reato di stalking

La giurisprudenza costituzionale ha già chiarito che, per verificare il rispetto del principio di determinatezza, «occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce» (da ultimo, sentenza n. 282 del 2010).

La valutazione, dunque, è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall’altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali. Infatti, come già precisato, a partire dalla sentenza n. 96 del 1981, «nella dizione dell’art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà».

Sul punto la Corte Costituzionale è chiamata a giudicare se l’art. 612-bis cod. pen. – che punisce «chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita» – soddisfi il principio di determinatezza delle fattispecie penali, garantito dall’art. 25, secondo comma, Cost.

Ciò premesso, occorre notare che la fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen. si configura come specificazione delle condotte di minaccia o di molestia già contemplate dal codice penale, sin dalla sua originaria formulazione, agli artt. 612 e 660. La lunga tradizione applicativa di tali fattispecie in sede giurisdizionale, da un lato agevola l’interpretazione della disposizione oggi sottoposta a giudizio e, dall’altro, offre la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili (e riscontrati) nella realtà.

La condotta di minaccia, infatti, oltre ad essere elemento costitutivo di diversi reati – si pensi, ad esempio, alla violenza privata ex art. 610 cod. pen., alla rapina ex art. 628 cod. pen. o all’estorsione ex art. 629 cod. pen. – è oggetto della specifica incriminazione di cui all’art. 612 cod. pen. e, nella tradizionale e consolidata interpretazione che ne è data, in piena adesione al significato che il termine assume nel linguaggio comune, essa consiste nella prospettazione di un male futuro. Molestare significa, invece, sempre secondo il senso comune, alterare in modo fastidioso o importuno l’equilibrio psichico di una persona normale. E questo è sostanzialmente il significato evocato dall’art. 660 cod. pen., in cui viene fatto riferimento alla molestia per definire il risultato di una condotta.

In anni più recenti il legislatore – con l’art. 7 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2009, n. 38 – volendo colmare un vuoto di tutela verso i comportamenti persecutori, assillanti e invasivi della vita altrui, di cui sono vittime soprattutto, ma non esclusivamente, le donne, ha introdotto nel codice penale l’art. 612-bis, il quale prevede un’autonoma e più grave fattispecie di reato, in linea con quanto previsto da numerosi ordinamenti stranieri e con quanto ora è stabilito, quale obbligo convenzionale per lo Stato, da strumenti internazionali e, segnatamente, dall’art. 34 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica di Istanbul, ratificata e resa esecutiva in Italia con gli artt. 1 e 2 della legge 27 giugno 2013, n. 77 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011). Con lo speciale reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. il legislatore ha ulteriormente connotato le condotte di minaccia e molestia, richiedendo che le stesse siano realizzate in modo reiterato e idoneo a cagionare almeno uno degli eventi indicati nel testo normativo (stato di ansia o di paura, timore per l’incolumità e cambiamento delle abitudini di vita). Tale ulteriore connotazione è volta ad individuare specifici fenomeni di molestia assillante che si caratterizzano per un atteggiamento predatorio nei confronti della vittima, bene espresso dal termine inglese “stalking”, con cui viene solitamente descritto questo comportamento criminale. Le peculiarità, che contraddistinguono la minaccia e la molestia in questi casi, espongono la vittima a conseguenze nella vita emotiva (stato di ansia e di paura ovvero timore per l’incolumità) e pratica (cambiamento delle abitudini di vita), che rappresentano eventi individuati dal legislatore proprio al fine di meglio circoscrivere la nuova area di illecito, caratterizzata da un aggravato disvalore rispetto alle generiche minacce e molestie e che, pertanto, giustificano una più severa reazione penale.

Ancora, occorre tenere conto del fatto che si è ormai consolidato un “diritto vivente” che qualifica il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. come reato abituale di evento, per la cui sussistenza occorre una condotta reiterata, idonea a causare nella vittima una delle conseguenze descritte e, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, richiede il dolo generico, il quale è integrato dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime a produrre almeno uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze n. 20993 e n. 7544 del 2012).

Ciò conferma quanto risulta evidente già dalla formulazione legislativa del precetto e, cioè, che il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. non attenua in alcun modo la determinatezza della incriminazione rispetto alle fattispecie di molestie o di minacce, di cui costituisce una specificazione.

Il fatto che il legislatore, nel definire le condotte e gli eventi, abbia fatto ricorso a una enunciazione sintetica della norma incriminatrice – come avviene, del resto, nella gran parte dei Paesi dove è stata adottata una normativa cosiddetta “anti-stalking” – e non abbia adottato, invece, una tecnica analitica di enumerazione dei comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza, purché attraverso l’interpretazione integrata, sistemica e teleologica, si pervenga alla individuazione di un significato chiaro, intelligibile e preciso dell’enunciato. Del resto, anche in un ordinamento come quello tedesco, in cui si è scelto di enumerare le ipotesi di persecuzione riportabili al cosiddetto “stalking” (“Nachstellung”), l’elenco non è tassativo, ma prevede una clausola di chiusura “ad analogia esplicita”, che attrae nel perimetro della rilevanza penale, oltre alle condotte puntualmente tipizzate, anche ogni “altro comportamento assimilabile” (“eine andere vergleichbare Handlung”, ex § 238, (1) del codice penale tedesco).

Invero, come già affermato dalla Corte, l’esigenza costituzionale di determinatezza della fattispecie ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost., non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (sentenze n. 79 del 1982, n. 120 del 1963 e n. 27 del 1961), oppure riferirsi a concetti extragiuridici diffusi (sentenze n. 42 del 1972, n. 191 del 1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (sentenza n. 126 del 1971). Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l’ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell’incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (sentenze n. 302 e n. 5 del 2004).

In relazione ai diversi elementi che, nella loro combinazione, integrano il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., ora sottoposto all’esame della Corte, viene anzitutto in rilievo la reiterazione di condotte minacciose o moleste, idonee alternativamente a cagionare un «perdurante e grave stato di ansia o di paura» ovvero a ingenerare un «fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva» ovvero a costringere lo stesso ad alterare le «proprie abitudini di vita».

Il concetto di «reiterazione», utilizzato nella norma incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie almeno due condotte di minacce o molestia. Ciò, tuttavia, non è sufficiente, in quanto le medesime devono anche essere idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Una tale valutazione di idoneità non può che essere condotta in concreto dal giudice esaminando il singolo caso sottoposto al suo giudizio e tenendo conto che, come ha ripetutamente sottolineato la giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze n. 46331 del 2013 e n. 6417 del 2010), non è sufficiente il semplice verificarsi di uno degli eventi previsti dalla norma penale, né basta l’astratta idoneità della condotta a cagionarlo, occorrendo invece dimostrare il nesso causale tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima.

Quanto al «perdurante e grave stato di ansia e di paura» e al «fondato timore per l’incolumità», trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima. A questo proposito, del resto, anche la giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza n. 14391 del 2012) ha precisato che la prova dello stato di ansia e di paura può e deve essere ancorata ad elementi sintomatici che rivelino un reale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, nonché dalle condizioni soggettive della vittima, purché note all’agente, e come tali necessariamente rientranti nell’oggetto del dolo. Anche sotto questo profilo, dunque, è dimostrato che l’enunciato legislativo di cui all’art. 612-bis cod. pen., pur richiedendo un’attenta considerazione di dati riscontrabili sul piano dei comportamenti e dell’esperienza, consente al giudice di appurare con ragionevole certezza il verificarsi dei fenomeni in esso descritti e, pertanto, non presenta vizi di indeterminatezza, ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost.

L’aggettivazione, inoltre, in termini di «grave e perdurante» stato di ansia o di paura e di «fondato» timore per l’incolumità, vale a circoscrivere ulteriormente l’area dell’incriminazione, in modo che siano doverosamente ritenute irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. A tale ultimo riguardo, deve rammentarsi come spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per giurisprudenza costante di questa Corte costituisce canone interpretativo unanimemente accettato (ex plurimis, sentenze n. 139 del 2014 e n. 62 del 1986).

Infine, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo.

CORTE COSTITUZIONALE sentenza n. 172 del 2014

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