Il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 – noto con l’accezione di Codice del Consumo – rappresenta il plesso normativo finalizzato ad apprestare una tutela incisiva e pregnante ad una parte – consumatore – generalmente dotata di minor forza contrattuale dell’altra – professionista – nella definizione dell’assetto negoziale, atto a disciplinare l’operazione perseguita dalle parti contraenti.
A questo proposito occorre ricordare che, in base alla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, il sistema di tutela istituito con la direttiva 93/13 si fonda sull’idea che il consumatore si trova in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista per quanto riguarda sia il potere negoziale sia il livello di informazione (v., in particolare, sentenza del 17 luglio 2014, Sanchez Mordilo e Abril Garcfa, C-169/14, EU:C:2014:2099, punto 22 e giurisprudenza ivi citata).
La normativa speciale, introducendo una specifica disciplina diretta ad appianare le disuguaglianze sostanziali fra soggetti titolari di poteri contrattuali differenti, integra la normativa codicistica, enucleando una forma di tutela privatistica differenziata su base personale, applicabile esclusivamente in ragione della qualifica soggettiva rivestita dalle parti contraenti.
La forte connotazione soggettiva dell’impianto così strutturato emerge chiaramente dalla previsione di cui all’art. 3 del Codice del Consumo che, circoscrivendo l’ambito applicativo della normativa, definisce le contrapposte categorie di consumatore e professionista.
Precisamente, ai sensi della lett. a) della previsione de qua, con l’accezione “consumatore ed utente” si intende “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”; di contro, il termine “professionista” individua, ai sensi della lett. e) della medesima disposizione, “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale”.
Tracciati i confini soggettivi della normativa di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, risulta, a questo punto, necessario perimetrarne l’ambito oggettivo, focalizzando l’attenzione sulle c.d. clausole vessatorie, la cui disciplina, in forza del rinvio operato dall’art. 1469 bis c.c., è cristallizzata negli artt. 33 e ss. del Codice del Consumo.
Mette conto evidenziare che l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 prevede che “le clausole abusive non vincolino i consumatori se, malgrado la buona fede determina un significativo squilibrio in danno del consumatore”. Si tratta di una disposizione imperativa tesa a sostituire all’equilibrio formale, che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra queste ultime (v., in particolare, sentenze del 17 luglio 2014, Sanchez Mordilo e Abril Garcia, C-169/14, EU:C:2014:2099, punto 23, nonchè del 21 dicembre 2016, Gutierrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punti 53 e 55).
Secondo la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, tale, disposizione deve essere considerata come una norma equivalente alle disposizioni nazionali che occupano, nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno, il rango di norme di ordine pubblico (v. sentenze del 6 ottobre 2009, AsturcomTelecomunicaciones, C-40/08, EU:C:2009:615, punti 51 e 52, nonchè del 21 dicembre 2016, Gutierrez Naranjoe a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punto 54; Corte di Giustizia UE sez. I, 26/01/2017, n. 421). L’art. 33, comma 1 del Codice del Consumo pone un’enunciazione di ordine generale, definendo vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Indice univoco del carattere abusivo di una clausola, alla stregua della definizione poc’anzi enunciata, è, dunque, rappresentato dallo squilibrio avente ad oggetto non già il mero valore delle reciproche prestazioni delle parti, bensì il complesso dei diritti e degli obblighi derivanti dal regolamento contrattuale predisposto.
L’indagine giudiziale circa la natura vessatoria delle clausole è agevolata dalla tipizzazione, all’interno del Codice del Consumo, di un elenco di clausole per le quali sussiste una presunzione assoluta di vessatorietà, che hanno l’effetto di indebolire ulteriormente la posizione contrattuale del consumatore.
L’automatica comminazione della sanzione della nullità parziale della clausola, e non dell’intero rapporto contrattuale, associata a tali previsioni subisce una deroga espressa con riguardo alle c.d. clausole presumibilmente vessatorie.
L’art. 33, comma 2 del Codice del Consumo contiene un elenco di venti clausole soggette ad una presunzione relativa di vessatorietà, in forza della quale una previsione negoziale astrattamente riconducibile ad una o più delle clausole espressamente contemplate dal suddetto elenco si presume vessatoria, salvo che il professionista fornisca la prova contraria.
L’onere probatorio gravante sul professionista al fine di confutare la natura presumibilmente vessatoria di una clausola contrattuale si considera assolto al ricorrere di determinati presupposti.
In primis, la presunzione di vessatorietà può essere vinta dal professionista, in conformità a quanto espressamente previsto dall’art. 34, comma 4 del Codice del Consumo, mediante la dimostrazione che la clausola censurata non sia stata unilateralmente imposta dallo stesso, ma abbia, di contro, formato oggetto di specifica trattativa individuale tra le parti, sempre che la medesima risulti caratterizzata dagli indefettibili requisiti dell’individualità, serietà ed effettività (Cass. civ., 20/03/2016, n. 6802; Cass. civ., 26/09/2008, n. 24262).
In primo luogo, ai sensi dell’art. 34, comma 2 del Codice del Consumo, non possono considerarsi vessatorie le clausole che attengono alla determinazione dell’oggetto del contratto nè all’adeguatezza del corrispettivo dei beni, e dei servizi, purchè tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile.
Secondo quanto stabilito da Cass. civ., sez. III, 03/11/2010, n. 22357, la clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche nel caso di mancata effettuazione dell’affare per fatto imputabile al venditore può presumersi vessatoria, e quindi inefficace a norma dell’art. 1469 bis c.c., se le parti non abbiano espressamente pattuito un meccanismo di adeguamento di tale importo all’attività sino a quel momento concretamente espletata dal mediatore.
La ratio dell’introduzione di tale principiò di gradualità va ravvisata nell’esigenza di garantire, nei contratti a prestazioni corrispettive come il contratto di mediazione “atipica” il rispetto del sinallagma contrattuale, dovendo trovare la prestazione di una parte il proprio fondamento nella controprestazione, al fine di evitare il ricorrere di situazioni di indebito arricchimento ai danni del contraente debole del negozio perfezionato.
Sul punto cit. Cass. civile Sez. II, 18/09/2020, n.19565: come argomentato nella citata sentenza, il compenso del mediatore, in caso di mancata conclusione dell’affare, trova giustificazione nello svolgimento di una concreta attività di ricerca di terzi interessati all’affare, attraverso la predisposizione dei propri mezzi e della propria organizzazione. L’accertamento relativo all’abusività della clausola va svolto anche nell’ipotesi in cui sia previsto il diritto potestativo di recesso, al fine di evitare che il diritto al compenso possa essere fissato in misura indipendente dal tempo e dall’attività svolta dal mediatore. Non si tratta, pertanto, di un inammissibile sindacato sull’oggetto del contratto, vietato dall’art. 34 comma 2 del Codice del Consumo in quanto non è messo in gioco la congruità del corrispettivo nell’ambito del regolamento dei rapporti contrattuali; l’accertamento sulla; vessatorietà della clausola costituisce, invece, un dovere officioso del giudice, tenuto a rilevare, anche d’ufficio la nullità di una clausola che, nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista, determina, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Si enunciano i seguenti principi di diritto:
“La clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso da parte del venditore può presumersi vessatoria quando il compenso non trova giustificazione nella prestazione svolta dal mediatore. E’ compito del giudice di merito valutare se una qualche attività sia stata svolta dal mediatore attraverso le attività propedeutiche e necessarie per la ricerca di soggetti interessati all’acquisto del bene”.
“Si presume vessatoria la clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest’ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest’ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere”.
Cass. civile Sez. II, 18/09/2020, n.19565