Danno endofamilare
Il danno endofamilare si verifica in conseguenza della lesione di diritti inviolabili (o fondamentali) della persona, oggetto di tutela costituzionale (artt. 2 e 30 Cost.).
Ne caso di specie è stato accertato che il padre, la cui paternità era stata accertata giudizialmente, non ha adempiuto al proprio obbligo di mantenere, istruire ed educare il figlio e che il disinteresse mostrato nei confronti di questo, oltre ad integrare una grave violazione dei doveri di cura e assistenza morale, ha inevitabilmente provocato una grave lesione dei diritti del figlio nascenti dal rapporto di filiazione, e ciò a prescindere dal fatto che l’altro genitore lo abbia riconosciuto alla nascita e provveduto in via esclusiva al suo mantenimento, restando fermo comunque il dovere dell’altro genitore, anche per il periodo che precede la sentenza dichiarativa della paternità, di ottemperare ai propri doveri (Cass., sez. 1, 22/11/2013, n. 26205, Cass., sez. 1, 10/04/2012, n. 5652).
Secondo il consolidato orientamento di legittimità l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio nasce proprio al momento della sua nascita, anche se la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass., sez. 1, 22/11/2013, n. 26205, Cass., sez. 1, 10/04/2012, n. 5652; Cass., sez. 1, 20/12/2011, n. 27653; Cass., sez. 1, 3/11/2006, n. 23596), producendo la sentenza dichiarativa della filiazione naturale gli effetti del riconoscimento e comportando per il genitore, ai sensi dell’art. 261 c.c., tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c.
L’obbligazione, come si è chiarito (Cass., sez. 6-3, 16/02/2015, n. 3079), trova la sua ragione giustificatrice nello status di genitore, la cui efficacia retroattiva è datata appunto al momento della nascita del figlio (fra le molte conformi, Cass., sez. 1, 6/11/2009 n. 23630), per cui l’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsiasi domanda giudiziale. Con la ulteriore conseguenza che, anche nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, per ciò stesso non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, proprio perché il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato, nei confronti di entrambi i genitori, è sorto fin dalla sua nascita (Cass., sez. 1, 22/11/2013, n. 26205; Cass., sez. 1, 10/4/2012, n. 5652; Cass., sez. 1, 14/05/2003, n. 7386).
La decisione di merito, nel caso di specie, si pone, dunque, in linea con la giurisprudenza di legittimità che, enucleando la nozione di illecito endofamiliare, ritiene che la violazione dei relativi doveri non trovi la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma comporta che la relativa violazione, nell’ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 c.c., come reinterpretato alla luce dei principi recentemente e ripetutamente affermati da questa stessa Corte in tema di danni alla persona (Cass., sez. 3, 17/01/2018, n. 901; Cass., sez. 3, 27/03/2018, n. 7513; Cass., sez. 3, 31/01/2019, n. 2788; Cass., sez. 3, 11/11/2019, n. 28989; Cass., sez. 3, 29/09/2021, n. 26301) all’indomani della modifica degli artt. 138 e 139 C.d.A. ad opera della L. 4 agosto 2017, n. 124 (cd. “legge di stabilità”).
Ai fini della quantificazione del danno patrimoniale e non patrimoniale subito dal figlio per la totale assenza della figura paterna, i giudici di merito hanno legittimamente fatto ricorso al criterio equitativo per determinarne l’importo, non altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare.
Al riguardo, va rammentato che “l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità”, ma solo a condizione che “la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (Cass., sez. 3, 13/10/2017, n. 24070; in senso conforme, Cass., sez. 1, 15/03/2016, n. 5090). Si è, in particolare, precisato che, al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum (Cass., sez. L, 31/01/2018, n. 2327), dovendosi ritenere censurabili le liquidazioni basate su criteri “manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza” (Cass., sez. 3, 25/05/2017, n. 13153; Cass., sez. 2, 22/02/2018, n. 4310).
Difatti, la “liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste pur sempre in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno, e cioè in un giudizio di mediazione tra le probabilità positive e le probabilità negative del danno effettivo nel caso concreto. Pur giocandovi un ruolo rilevante il potere discrezionale del giudice, essa non può tradursi, pertanto, in una valutazione arbitraria, in quanto il giudice è chiamato a compiere un ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze che nel caso concreto abbiano potuto avere incidenza positiva o negativa sull’ammontare del pregiudizio e a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito a ciascuna di esse, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento” (Cass., sez. 3, 13/09/2018, n. 22272).
Corte di Cassazione Civile, Sez. III, ordinanza, 12 maggio 2022, n. 15148