Dare in sposa la propria figlia. Riduzione in schiavitù

Dare in sposa la propria figlia Relazione sentimentale durante il matrimonio Il requisito della continenza Bacheca facebook Principio di libertà della prova Pressione psicologica Ripetibilità delle somme percepite a titolo di assegno di mantenimento Risarcimento del terzo trasportato comunione de residuo Marchio di impresa Assunzione della prova testimoniale Impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio Alterazione o cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza Termini a difesa Obbligazione assunta da un coniuge Risarcimento del danno non patrimoniale alla madre e ai fratelliDare in sposa la propria figlia. Riduzione in schiavitù

Dare in sposa la propria figlia al patriarca della famiglia a cui appartiene il promesso sposo, sulla base di un accordo a cui la persona offesa è rimasta estranea integra il reato di riduzione in schiavitù.

In tal senso il vantaggio conseguito nel c.d. “prezzo della sposa” corrisponderebbe ad un antico e consolidato istituto giuridico che attribuisce al medesimo non già la natura di corrispettivo della compravendita, bensì la funzione di risarcire la famiglia della sposa per la perdita di un proprio componente e di garantire l’agiatezza della famiglia dello sposo.

Secondo la consolidata giurisprudenza, tale condotta rientra nel primo comma dell’art. 600 c.p., giacchè il fatto contestato è quello di chi esercita su di un essere umano un dominio equivalente a quello che la titolarità del diritto dominicale consente di esercitare su di una cosa. La norma richiede peraltro che i poteri esercitati sull’altrui persona “corrispondano” a quelli del diritto di proprietà, formula idonea ad evocare non solo la condizione di schiavitù di diritto, ma altresì quelle situazioni nelle quali di fatto venga esercitata su di un altro essere umano una signoria così pervasiva nel risultare equivalente nel suo contenuto alle forme di manifestazione del diritto di proprietà. La condotta tipizzata indica dunque la “reificazione” della vittima, comportandone di per sè lo sfruttamento, come ripetutamente chiarito dalla Corte di legittimità (Cass., Sez. 5, n. 10426 del 09/01/2015).

Non può trovare applicazione il più favorevole articolo 558-bis del Codice penale, sul reato di “Costrizione o induzione al matrimonio”, introdotto dalla legge 69/2019 con il cosiddetto Codice rosso.

Il criterio strutturale si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore (Cass., S.U., n. 20664 del 23/02/2017). Comparizione che non può che avere esito negativo, non registrandosi alcuna coincidenza tra le fattispecie a confronto. Ed infatti i fatti tipizzati dalle due norme incriminatrici non presentano alcuno elemento di contatto, posto che violenza e minaccia non sono tratti costitutivi del delitto di riduzione in schiavitù, configurabile perfino quando il soggetto passivo non sia consapevole del suo stato, bensì di quello di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa. Nè del resto, prima dell’avvento dell’art. 558-bis C.p., è stato mai ipotizzato che il “matrimonio forzato e/o precoce” integrasse di per sè il reato di cui all’art. 600 comma 1 c.p., ritenuto nel caso di specie.

Corte di Cassazione, sez. V penale, Sentenza n. 30538 del 04/08/2021

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