Dichiarazione congiunta di riconoscimento del minore

Dichiarazione congiunta di riconoscimento del minore internet providers Accerchiamento Principio di legalità della pena Determinazione del reato più grave Il Ravvedimento Permesso premio La liberazione anticipata Pirateria Furto aggravato Risarcimento integrale del danno Smishing Convivenza di fatto tra un terzo e l'ex coniuge Mago Contraffazione o alterazione Fake lab Monopattino Modifica del programma di trattamento termine di decadenza Decisione Manifesta ubriachezza intollerabilità della convivenza dichiarazione di addebito Materiale fotografico Abusiva occupazione di un bene immobile Apprezzamento della prova indiziaria Allontanamento Giudizio di rinvio dopo annullamento Orario di lavoro discriminazione Azioni vessatorie La nozione Appropriazione Pubblicità ingannevole Tenore espressivo Aumento della pena Reato di esercizio di una casa di prostituzione Rapporto di coniugio Unicità del disegno criminoso rimessione Il dolo nel reato di ricettazione Contraffazione di marchi e segni 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Nel caso di specie due donne avanzano la loro richiesta di ricevere la dichiarazione congiunta di riconoscimento del minore nato da fecondazione assistita praticata all’estero.

In particolare una delle donne, entrambe cittadine italiane conviventi, è madre biologica del minore (che ha partorito) e della quale ha la responsabilità genitoriale e l’altra dichiara di essere genitrice intenzionale per avere dato il consenso alla tecnica di procreazione medicalmente assistita cui si è sottoposta la donna convivente.

In tal caso la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del divieto per le coppie formate da persone «dello stesso sesso» di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) cui possono accedere solo le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi» (art. 5 della legge n. 40 del 2004), rafforzato dalla previsione di sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2).
Tale divieto – desumibile anche da altre disposizioni (cfr. dPR n. 396 del 2000, art. 30, comma 1; dPR 17 luglio 2015, art. 1, comma 1, lett. c, che ha sostituito l’art. 7, comma 1, lett. a, del dPR 30 maggio 1989, n. 223) che implicitamente (ma chiaramente) postulano che una sola persona abbia diritto di essere menzionata come madre nell’atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato – è attualmente vigente all’interno dell’ordinamento italiano e, dunque, applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa.
La Corte costituzionale lo ha ritenuto conforme a Costituzione con la sentenza n. 221 del 2019. La quale ha premesso che «la possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale», ma al suddetto interrogativo la Corte ha dato risposta negativa seguendo «due idee di base».
La prima «attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o in fertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati».
La seconda «attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre».
La validità delle suddette conclusioni non è inficiata dai recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità sui terni dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali (cfr. Cass. n. 12962 del 2016) e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso (cfr. Cass. n. 19599 dei 2016, n. 14878 del 2017).
Ed infatti, come rilevato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza, «vi è […] una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela […] l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto [La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole […] che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”».
Per altro verso, «il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione» (in tal senso, Corte cost. n. 221 del 2019). La possibilità di ottenere il riconoscimento in Italia di atti stranieri dichiarativi del rapporto di filiazione da due donne dello stesso sesso si giustifica in virtù del fatto che diverso è il parametro normativo applicabile. A venire in rilievo, in tal caso, è il principio di ordine pubblico (legge 31 maggio 1995, n. 218, artt. 16 e 64, comma 1, lett. g) con il quale si è ritenuto non contrastare il divieto normativamente Imposto in Italia alle coppie formate da persone «di sesso diverso» di accedere alle PMA, in relazione ad atti validamente formati all’estero per i quali è impellente la tutela del diritto alla continuità (e conservazione) dello «status filiationis» acquisito all’estero, unitamente al valore della circolazione degli atti giuridici, quale manifestazione dell’apertura dell’ordinamento alle istanze internazionalistiche, delle quali può dirsi espressione anche il sistema del diritto internazionale privato, alla luce dell’art. 117, comma 1, Cost.
E ciò diversamente dalle coppie omosessuali maschili, per le quali la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso la pratica distinta della maternità surrogata (o gestazione per altri) che è vietata da una disposizione (l’art. 12, comma 6, della L. n. 40 del 2004) che si è ritenuta espressiva di un principio di ordine pubblico, a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione, non irragionevolmente ritenuti dal legislatore prevalenti sull’interesse del minore, salva la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione (Cass., sez. un., n. 12193 del 2019).

Corte di Cassazione Civile Sent. Sez. 1 n. 7668 del 2020

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