Il Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa di cui all’art. 282 ter C.p.P. prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa, anche disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275 bis.
Qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, il giudice può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone.
Il giudice può, inoltre, vietare all’imputato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con le persone di cui ai commi 1 e 2.
Quando la frequentazione dei luoghi di cui ai commi 1 e 2 sia necessaria per motivi di lavoro ovvero per esigenze abitative, il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
La misura cautelare personale di cui all’art. 282-ter C.p.P. è stata introdotta nel nostro ordinamento proprio in relazione al reato di atti persecutori, quando la condotta si connoti per una persistente ricerca di avvicinamento alla vittima, tanto che è stato ritenuto legittimo anche il provvedimento che obblighi il destinatario della misura a mantenere una certa distanza dalla persona offesa, ovunque questa si trovi, senza specificare i luoghi oggetto del divieto (Cass., Sez. 5, n. 18139 del 26/03/2018).
Si è infatti condivisibilmente affermato che il divieto di avvicinamento previsto dall’art. 282-ter C.p.P., riferendosi alla persona offesa in quanto tale, e non solo ai luoghi da questa frequentati, esprime una precisa scelta normativa di privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo ovvero di priorità dell’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza, anche laddove la condotta di persistenza persecutoria non sia legata a particolari ambiti locali; con la conseguenza che il contenuto concreto della misura in questione deve modellarsi rispetto alla predetta esigenza e che la tutela della libertà di circolazione e di relazione della persona offesa non trova limitazioni nella sola sfera del lavoro, degli affetti familiari e degli ambiti ad essa assimilabili (Cass., Sez. 5, n. 19552 del 26/03/2013).
È allora assolutamente necessario che il giudice motivi sulla sussistenza di esigenze cautelari fronteggiabili con una misura finalizzata ad evitare che vi siano contatti tra l’indagato e la persona offesa, tanto più in un caso, come quello in esame, nel quale le condotte moleste, valorizzate nella prospettazione del quadro indiziario, non sono caratterizzate da violenza fisica nè minaccia e non v’è alcun elemento in base al quale ritenere fondatamente che vi sia da parte dell’indagato una persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima, in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi. Infatti, solo in tale caso può essere irrilevante l’individuazione di luoghi di abituale frequentazione della vittima.
Con la misura di cui all’art. 282-ter C.p.P. il giudice prescrive all’indagato di non avvicinarsi a luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa (comma 1).
Prescrizioni facoltative concernono l’estensione di divieti e obblighi anche nei confronti dei prossimi congiunti della persona offesa (comma 2) e il divieto di comunicazione (comma 3). Quando la frequentazione dei luoghi di cui ai commi 1 e 2 sia necessaria per motivi di lavoro ovvero per esigenze abitative, il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni (comma 4).
È del tutto evidente, quindi, che la ratio della norma sia quella di ampliare lo spazio di protezione della vittima di atti persecutori a fronte delle possibili situazioni di contatto con l’aggressore, creando uno schermo di protezione attorno alla persona offesa, modulabile in base alle esigenze del caso concreto.
Infatti, le esigenze di cautela contemplate dalla norma devono essere conciliabili con i diritti e le necessità della persona sottoposta alla misura, sotto un duplice profilo: a) quello di determinare una compressione della libertà di movimento dell’onerato nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima; b) quella di assicurare una sufficiente determinatezza della misura, affinché sia ben chiaro all’obbligato quali comportamenti deve tenere e sia eseguibile il controllo sulla corretta osservanza delle prescrizioni a lui imposte.
Va detto che una interpretazione restrittiva in ossequio al principio di legalità, specie nelle sue declinazioni di tassatività e determinatezza della disposizione di cui all’art. 282-ter C.p.P. può comportare anche uno snaturamento della funzione della misura, ossia quella di prevenire le ingerenze dell’aggressore nella sfera privata della vittima.
Tale funzione, infatti, rischia di risultare compromessa dalla riduzione del campo di applicazione della misura alle sole ingerenze perpetrate “direttamente“, cioè mediante l’avvicinamento fisico alla vittima o ai luoghi da questa frequentati, escludendo invece quelle realizzate “indirettamente“, per esempio mediante danneggiamento delle cose di proprietà della persona offesa. Si rischia, cioè, di riconoscere all’istituto, quantomeno con riferimento a determinati casi, una valenza formale, ma non sostanziale.
Pertanto, è compito del giudice applicare la misura, articolandola in contenuti adeguati agli obiettivi da raggiungere nel caso concreto.
(Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza 14 gennaio 2021, n. 1541)