Il dispositivo ex art. 649 C.p.P. stabilisce il Divieto di un secondo giudizio, che vieta un procedimento penale a carico dell’imputato per lo stesso fatto, c.d. ne bis in idem:
L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345.
Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 31/5/2016, ha statuito l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell’art. 649 C.p.P., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste il concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. Nella delineata prospettiva, la Consulta ha escluso che l’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU – secondo cui “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato” – abbia un contenuto più ampio di quello dell’art. 649 C.p.P., per il quale “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto“.
La giurisprudenza della Corte EDU porta solo ad affermare – ha precisato la Corte Costituzionale – che, per i giudici di Strasburgo, la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla mera qualificazione giuridica della fattispecie. Non v’è nessuna ragione logica – ha però precisato la Corte Costituzionale – per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, “all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente“. Parimenti – ha proseguito la Corte Costituzionale – nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l’art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell’idem factum, da condurre attraverso l’esame della sola condotta; anzi, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l’art. 4 del Protocollo 7, che consente la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza – favorevole all’imputato – già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente. Al contrario – ha concluso la Corte Costituzionale – sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., Sez. U, n. 34655 del 28/6/2005). Tanto a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In tal modo, è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649 C.p.P., senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale, e si evita che la valutazione comparativa – cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i singoli reati.
Del resto, ad una valutazione sostanzialistica dell’idem factum la Corte di legittimità si è già conformata, affermando come ai fini della preclusione del “ne bis in idem“, l’identità del fatto debba essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato (Cass., Sez. 5, n.47683 del 04/10/2016; n. 459 del 1997; n. 31446 del 2008; n. 4103 del 2013; n. 18376 del 2013; n. 32352 del 2014; n. 52215 del 2014; n. 19712 del 2015), al fine di presidiare, secondo effettività, le garanzie che la predetta norma è intesa a tutelare.
La valutazione sostanzialistica dell’idem factum deve, allora, procedere tenendo conto dei rapporti di interferenza strutturale tra i reati.
Corte di Cassazione Sez. 5 n. 11542 Anno 2022