La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la determinazione della durata del lavoro di pubblica utilità previsto nel programma di messa alla prova, in base al criterio desunto dall’art. 54 D.lgs. 274 del 2000 (“Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi, … la durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore, … ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro“)
Nel caso di specie l’imputato ha elaborato il programma di trattamento di intesa con l’UEPE e il programma ha previsto la necessità dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità ma non ne ha fissato la durata. In particolare, l’imputato/ ricorrente contesta l’utilizzazione del criterio secondo cui un giorno di lavoro di pubblica utilità corrisponda a due ore di lavoro, secondo l’art. 54 D.lgs. 274 del 2000.
Occorre evidenziare che l’art. 464-bis, comma 4, C.p.P. prevede che, alla richiesta formulata dall’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova, è allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l’elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto programma, il quale prevede: le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale.
Il successivo art. 464-quater, comma 3, C.p.P., stabilisce che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 C.p., reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Ed, infine, l’art. 168-bis, terzo comma, C.p., prevede che: “La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore“.
Dal complesso di tali disposizioni emerge che la previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilità costituisce il nucleo sanzionatorio del sistema della sospensione con messa alla prova: si tratta, cioè, di una sanzione sostitutiva di tipo prescrittivo dotata di una necessaria componente afflittiva.
E la connotazione sanzionatoria del lavoro di pubblica utilità induce a rilevare, come una lacuna significativa, la mancata previsione dei criteri a cui il giudice deve attenersi nel vaglio di congruità della sua durata complessiva e della sua intensità.
Dalle norme sopra richiamate si evincono: una durata minima di dieci giorni e una massima che, in mancanza di diverse indicazioni, non può che coincidere con i termini massimi di sospensione del procedimento (uno o due anni, a seconda della natura della pena edittale); un’intensità massima di otto ore giornaliere, senza indicazione del minimo. Non essendo, però, previsto che la prestazione del lavoro gratuito debba necessariamente coprire l’intero periodo della sospensione, perché non avrebbe senso, altrimenti, la previsione di un limite minimo di dieci giorni, occorre individuare indici di commisurazione sufficientemente certi.
Non possono evidentemente trovare applicazione i criteri dettati nei casi in cui il lavoro gratuito è previsto come pena sostitutiva di quella detentiva: sia perché la messa alla prova e la prestazione lavorativa che vi è inclusa si applicano anche a reati sanzionati con pena esclusivamente pecuniaria; sia perché qui manca, per definizione, una condanna che possa fungere da limite e parametro di ragguaglio (v., in tema di art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990: Cass., Sez. 1, n. 30089 dei 26/06/2009; Cass., Sez. 3, n. 40995 del 23/05/2013; in tema di violazioni del codice della strada: Cass., Sez. 1, n. 12019 del 1/02/2013).
Il criterio più sicuro e dotato di più solidi appigli testuali è apparso alla giurisprudenza di legittimità quello dell’applicazione in via analogica degli indici dettati dall’art 133 C.p. per la commisurazione della pena, con una prospettiva che tenga conto a un tempo: della valutazione virtuale della gravità concreta del reato e del quantum di colpevolezza dell’imputato, nonché delle sue necessità di risocializzazione (Cass., Sez. 3, n. 55511 del 19/09/2017; Cass., Sez. 6, n. 44646 del 01/10/2019).
E, del resto, la necessità di riferirsi, in generale, ai parametri di valutazione di cui all’art. 133 C.p. è richiamata anche dalla Corte costituzionale (ord. n. 54 del 2017) quale condizione per la compatibilità del sistema della messa alla prova e, nel suo ambito, del lavoro di pubblica utilità con gli artt. 3, 24 e 27 Cost.
A queste considerazioni deve aggiungersi che il quadro normativo sopra richiamato non fissa un confine rigido fra il programma di trattamento elaborato dall’ufficio esecuzione penale esterna di intesa con l’imputato e il provvedimento del giudice con il quale si dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova. Non si prevede, in particolare, se la durata del lavoro di pubblica utilità debba essere fissata dal primo o dal secondo di tali atti, ferma restando la necessità di un controllo del giudice sulla sua congruità.
Evidentemente, un tale controllo non può che comportare oneri motivazionali diversi a seconda che il programma, accettato espressamente dall’imputato, indichi la durata del lavoro di pubblica utilità ovvero non la indichi.
Nel primo caso, infatti, la motivazione del successivo provvedimento del giudice potrà limitarsi a un richiamo alla congruità di quanto già previsto di intesa fra l’imputato e l’UEPE; nel secondo caso, sarà invece necessaria una motivazione più pregnante.
Pertanto, “qualora il giudice, nel disporre la sospensione del procedimento penale con messa alla prova, si limiti a recepire il programma di trattamento, l’onere motivazionale su di lui incombente può intendersi soddisfatto anche attraverso un semplice richiamo alla congruità del programma, trattandosi di un elaborato dall’UEPE di intesa con l’imputato e, dunque, conosciuto e condiviso da quest’ultimo. Qualora, invece, il giudice non si limiti a recepire il contenuto del programma ma lo integri (ad esempio fissando la durata del lavoro di pubblica utilità, non determinata nel programma), deve fornire una motivazione che non può limitarsi ad un semplice richiamo al programma stesso o, genericamente, ai parametri dell’art. 133 C.p., ma deve dare conto delle ragioni delle scelte operate in relazione alle peculiarità del caso concreto” (Cass., Sez. 6, n. 44646 del 01/10/2019).
Corte di Cassazione Penale Sent. Sez. 6 Num. 37694 Anno 2020