Il diritto agli alimenti e la misura degli alimenti, ovvero il riconoscimento e la quantificazione del diritto agli alimenti, trova una specifica disciplina nell’art. 438 C.c.:
Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento.
Essi devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale.
Il donatario non è tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio.
Il presupposto dell’obbligazione alimentare è, oltre allo stato di bisogno, “l’incapacità” da parte dell’interessato, “di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento” secondo la fattispecie delineata dall’art. 438 C.c.. La nominata incapacità dell’alimentando è intesa come “esistenza di una situazione indipendente dalla sua volontà, che non gli consenta di procurarsi autonomamente i mezzi necessari al sostentamento“. Ed è appena il caso di aggiungere come il termine “sostentamento” assuma un valore lessicale pienamente sovrapponibile a quello di “mantenimento” (parola, questa, che assume comunemente il detto significato, quando è riferita a un persona) – (Cass, Sez. I, ord., 20 dicembre 2021, n. 40882: fattispecie ove veniva richiesto il diritto agli alimenti a carico del genitore da parte del figlio che nonostante la laurea “breve” conseguita in informatica, e nonostante si fosse attivato per la ricerca di un lavoro, la propria condizione lavorativa era rimasta precaria e tale da non permettergli una vita dignitosa).
L’art. 438 C.c. prevede che gli alimenti possano essere richiesti “solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento“. La situazione di bisogno va intesa come incapacità della persona di provvedere alle fondamentali esigenze di vita; esprime, dunque, l’impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l’abitazione, il vestiario, le cure mediche, e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie (Cass. 8 novembre 2013, n. 25248). Il non essere in grado di provvedere al proprio mantenimento indica, poi, l’involontaria e non imputabile mancanza di un reddito di lavoro. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire, al riguardo, che il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa, sicché, ove l’alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l’impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un’occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata (Cass. 6 ottobre 2006, n. 21572; nello stesso senso: Cass. 14 febbraio 1990, n. 1099; Cass. 30 marzo 1981, n. 1820).
L’accertamento dell’impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari non può poi prescindere dalla verifica dell’accessibilità dell’alimentando a forme di provvidenza che consentano di elidere, ancorché temporaneamente, lo stato di bisogno (sì pensi, oggi, al reddito di cittadinanza di cui al D.L. n. 4 del 2019, convertito dalla L. n. 26 del 2019). È da credere, infatti, che, nella partita del diritto agli alimenti, la colpevole mancata fruizione di tali apporti giochi lo stesso ruolo dell’imputabile mancanza di un reddito di lavoro; nell’uno e nell’altro caso si delinea l’insussistenza di quell’impedimento oggettivo ad ovviare al lamentato stato di bisogno che è condizione per l’insorgenza del diritto in questione. (Cass, Sez. I, ord., 20 dicembre 2021, n. 40882)