Con riferimento alla lesione all’integrità fisica della vittima, la medesima condotta vessatoria perpetrata sul luogo di lavoro, in termini di mobbing, può integrare ulteriori fattispecie delittuose, sempre che quest’ultime si verifichino nell’ambito di una condotta unitaria.
Con la sentenza n. 31271/2020 gli Ermellini arrivano ad affermare la ravvisabilità dello stalking in ambito lavorativo.
L’elaborazione giurisprudenziale giuslavoristica in tema di tutela delle condizioni di lavoro ha delineato i tratti caratterizzanti il mobbing lavorativo, che si configura ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo (ex multis Cass., Sez. L, n. 12437 del 21/05/2018) che unifica la condotta, unitariamente considerata.
Ed è proprio siffatta finalità a svolgere una peculiare funzione selettiva, in quanto, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass. Sez. L, n. 10992 del 09/06/2020; n. 4222 del 2016; n. 12437 del 2018; n. 26684 del 2017).
In tal senso, il mobbing può definirsi in termini di “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro“.
In riferimento alla rilevanza penale delle condotte di mobbing, questa Corte ha affermato come le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass., Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018; n. 28603 del 2013; n. 13088 del 2014; n. 24057 del 2014; n. 24642 del 2014).
Sempre valorizzando il piano della relazione, verticale, tra le parti, si è precisato come, in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art. 571 C.p. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 C.p. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (Cass., Sez. 6, n. 51591 del 28/09/2016; n. 10090 del 2001).
Si è, in tal senso, rimarcato il profilo di abuso di quegli obblighi di protezione che caratterizzano tanto il rapporto di lavoro subordinato, dalla parte datoriale, che i vincoli latu sensu (para)familiari, in un’ottica indirizzata alla verifica della lesione all’integrità fisica, che ha sciolto l’alternativa tra la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 582 o degli artt. 571 e 572 C.p. e limitando l’indagine al bene interesse della salute (Cass., Sez. 5, n. 33624 del 09/07/2007).
Siffatta visione, tutta incentrata sulla tutela dell’integrità psico-fisica della vittima, insiste, nondimeno, sulla connotazione del fenomeno del mobbing in termini di mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro; e non esclude, ma, anzi, conferma, la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui all’art. 612-bis C.p., ove ricorrano gli elementi costituivi di siffatta fattispecie e, in particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati.
Ed invero il delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale e di danno, è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, sicché ciò che rileva è la identificabilità di questi quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi, alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (ex multis Cass., Sez. 5, n. 7899 del 14/01/2019), che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie (Cass., Sez. 5, n. 11931 del 28/01/2020).
Ed è siffatto nucleo essenziale a qualificare giuridicamente la condotta che può, invero, esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purchè sia idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all’esito della necessaria verifica causale.
In altri termini, il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612-bis C.p. Ed assume mero contenuto descrittivo, che peraltro registra ma non limita la varietà degli ambiti fenomenologici, il riferimento a diverse declinazioni del reato, correlate a specifiche “ambientazioni” (cd. stalking condominiale, giudiziario…).
Ne consegue che nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo di cui all’art. 612-bis C.p. laddove quella “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro“, elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice. (Corte di Cassazione Penale, Sez. 5, 09 novembre 2020, n. 31273).