Impresa familiare alla quale partecipi un convivente di fatto
Dispositivo dell’art. 230 ter Codice Civile
Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato
Introducendo l’art. 230-ter cod. civ. – come meglio si dirà oltre – il legislatore non ha inteso limitare la disciplina preesistente di cui all’art. 230-bis cod. civ., escludendo il convivente di fatto da alcuni diritti (quale il diritto al mantenimento) spettanti ai partecipanti all’impresa familiare, ma ha riconosciuto una tutela nuova nel caso di impresa familiare alla quale partecipi un convivente di fatto, sul ritenuto presupposto, implicito ma inequivocabile, che prima non fosse prevista. Ha quindi introdotto una nuova, autonoma e specifica disciplina, pur di portata minore rispetto a quella dell’art. 230-bis cod. civ.; disciplina che quindi non poteva che operare per il futuro.
Vero è che da una parte, l’affermazione della esclusione del convivente more uxorio tra i possibili componenti dell’impresa familiare si rinveniva in alcuni non recenti arresti di quella Corte (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 1994, n. 4204 e sezione seconda civile, sentenza 29 novembre 2004, n. 22405); ma essi non erano in sintonia con altre pronunce che, invece, avevano ritenuto la possibilità, per il medesimo convivente, di essere componente di una comunione tacita familiare (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 dicembre 1994, n. 10927 e 15 marzo 2006, n. 5632).
Dall’altra parte, le Sezioni unite penali (Corte di cassazione, sentenza 26 novembre 2020-17 marzo 2021, n. 10381), poste a fronte di un interrogativo analogo – se nella nozione di «prossimi congiunti», prevista dall’art. 384, primo comma, del codice penale, per definire l’area di applicabilità dei «casi di non punibilità», il convivente more uxorio, ancorché non espressamente previsto, potesse ritenersi non di meno compreso nell’elenco di cui all’art. 307, quarto comma, cod. pen. (secondo cui «[a]gli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti») – avevano seguito la strada dell’interpretazione conforme, affermando l’inclusione del convivente nel catalogo dei soggetti che beneficiano della suddetta «scusante soggettiva».
Ma deve considerarsi che lo sviluppo normativo e giurisprudenziale, che, con riferimento a specifiche fattispecie, ha dato rilevanza – come si vedrà oltre – alla situazione della convivenza more uxorio, ha uno specifico punto di caduta nella regolamentazione dell’impresa familiare nell’innovativo contesto della disciplina per le unioni civili e le convivenze di fatto, introdotta dalla legge n. 76 del 2016.
Infatti, il comma 13 dell’articolo unico della legge – che prevede il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso – prescrive espressamente che si applichino le disposizioni di cui alle Sezioni II, III, IV, V e VI del Capo VI del Titolo VI del libro primo del codice civile. Da ciò si desume l’applicabilità dell’art. 230-bis cod. civ. alle unioni civili, con conseguente ampliamento del catalogo del suo terzo comma nella parte in cui definisce come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.
Invece il comma 46 dello stesso articolo unico introduce una nuova disposizione – l’art. 230-ter cod. civ. – che prevede che «[a]l convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato».
Da quest’ultima disposizione, in particolare, si desume a contrario la non applicabilità dell’art. 230-bis alle convivenze more uxorio; ciò che ha costituito un chiaro dato testuale preclusivo dell’interpretazione conforme.
CORTE COSTITUZIONALE sentenza n. 148/2024