La sospensione condizionale della pena è collegata agli obblighi del condannato di cui all’art. 165 C.p.:
La sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno; può altresì essere subordinata, salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna.
La sospensione condizionale della pena, quando è concessa a persona che ne ha già usufruito, deve essere subordinata all’adempimento di uno degli obblighi previsti nel comma precedente.
Tale disposizione un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in merito alla disciplina di cui all’art. 165, primo e secondo comma, C.p., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla Legge 11 giugno 2004, n. 145, la quale, da un lato ha introdotto, tra gli obblighi a cui la sospensione condizionale della pena può essere subordinata, la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività «se il condannato non si oppone», e dall’altro, eliminando dal secondo comma dell’art. 165 C.p. l’inciso «salvo che ciò sia impossibile», ha reso obbligatoria la subordinazione della seconda sospensione condizionale della pena a uno degli obblighi previsti dal primo comma.
Ciò posto, si rileva che nella giurisprudenza di legittimità si registrano soluzioni contrastanti sia in ordine alla questione della necessità o meno di un’espressa manifestazione di volontà da parte dell’imputato al fine di subordinare la sospensione condizionale della pena alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività, sia riguardo alla questione dell’applicabilità a tale prestazione del limite massimo di sei mesi previsto dall’ordinamento del giudice di pace per la durata della pena del lavoro di pubblica utilità.
In tal senso viene dato atto come, nella giurisprudenza di legittimità, si registri un contrasto sui caratteri che deve assumere la “non opposizione“. Una tesi ritiene implicito, nella proposizione della richiesta di sospensione condizionale da parte di chi ne abbia già usufruito, il consenso alla subordinazione del beneficio all’adempimento di uno degli obblighi di cui all’art. 165 C.p., trattandosi di prescrizione che il giudice deve necessariamente disporre, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, per concederlo. Secondo un diverso indirizzo, invece, la “non opposizione” alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività deve essere manifestata espressamente e personalmente dall’imputato, anche quando la sospensione condizionale sia concessa a persona che ne abbia già usufruito.
Si rileva che il primo dei due indirizzi ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte costituzionale, la quale, con l’ordinanza n. 229 del 2020, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 165, secondo comma, C.p. nella parte in cui subordina la possibilità di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena a chi ne abbia già goduto alla condizione che egli necessariamente risarcisca il danno o provveda alle restituzioni, senza assegnare alcuna rilevanza al caso in cui ciò non sia possibile.
Il contrasto in esame assume implicazioni quando la questione si pone nell’alveo peculiare del rito di cui all’art. 444 C.p.P., in quanto, in tale ambito, oltre al tema della non opposizione, viene in gioco quello del potere del giudice di imporre d’ufficio una condizione estranea all’accordo delle parti.
Anche sul punto si registra un contrasto interpretativo. Alla stregua di un primo orientamento, la richiesta di patteggiamento/ presentata da un imputato che in passato ha già usufruito del beneficio, implica di per sé la sua “non opposizione” alla prestazione del lavoro di pubblica utilità, trattandosi di condizione a cui deve necessariamente essere subordinata la nuova sospensione condizionale della pena. Ad esso se ne contrappone un altro secondo il quale il giudice, ratificando l’accordo intervenuto tra le parti, non può alterare il contenuto dell’accordo stipulato dalle parti e condizionare la sospensione, nemmeno qualora ricorra l’ipotesi disciplinata dal secondo comma dell’art. 165.
Sulla questione, prima della riforma del 2004 che ha reso obbligatoria la subordinazione della sospensione condizionale della pena in caso di seconda concessione del beneficio, erano intervenute le Sezioni Unite (Sez. U, n. 10 del 11/05/1993), le quali avevano escluso che in caso di richiesta di applicazione della pena il giudice potesse subordinare la sospensione condizionale della pena all’adempimento di un obbligo, in quanto non gli è consentito alterare i termini del patto intervenuto tra le parti ed inoltre in quanto trattasi di determinazione non necessitata, bensì prevista dalla legge quale esercizio di un potere facoltativo del giudice.
Così, nella giurisprudenza successiva alla novella del 2004, l’orientamento favorevole a riconoscere al giudice del patteggiamento il potere di condizionare la sospensione nell’ipotesi di reiterazione del beneficio ha valorizzato il fatto che, in tal caso, si tratta di adempiere ad un obbligo previsto dalla legge, laddove il contrapposto orientamento fa, invece, perno sulla circostanza che la statuizione, pur essendo obbligatoria, non ha un contenuto prefissato, che può essere più o meno afflittiva ed è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice, suscettibile di estrinsecarsi, nel caso del lavoro di pubblica utilità, anche nella determinazione della durata della prestazione.
Quanto alla seconda questione, relativa alla durata massima della prestazione di attività non retribuita a cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena sussistono due indirizzi interpretativi. Un primo orientamento reputa pienamente operante la disciplina dettata per il lavoro di pubblica utilità dettata dall’art. 54, commi 2 e 3, D.lgs. n. 274 del 2000, stante il richiamo di tali disposizioni ad opera dell’art. 18-bis disp. coord. trans. C.p., ritenendo, conseguentemente, che la prestazione in esame sia soggetta a due limiti massimi cumulativi: quello di sei mesi previsto dall’ordinamento del giudice di pace (pari a centocinquantasei ore, cioè sei ore settimanali per ventisei settimane) o, se inferiore, quello della durata della pena sospesa, previsto dall’art. 165, primo comma, C.p.
Secondo un contrapposto orientamento, invece, la durata della prestazione di attività non retribuita a cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena troverebbe la sua disciplina unicamente nella disposizione di cui al primo comma dell’art. 165 C.p., poiché l’art. 18-bis disp. coord. trans. C.p. richiama la disciplina di cui al D.lgs n. 274 del 2000 solo in quanto compatibile, e quindi non per gli aspetti compiutamente disciplinati direttamente dal codice penale.
La questione è stata assegnata alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le seguenti questioni di diritto:
«Se, nell’applicare la pena su richiesta delle parti, il giudice possa subordinare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena ad uno degli obblighi previsti dall’art. 165, comma primo, C.p. e, in particolare, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività pur in mancanza di esplicito consenso dell’imputato»;
seconda questione:
«Se il computo della durata della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività debba essere effettuato con riferimento solo al criterio dettato dall’art. 165, comma primo, C.p., di non superamento della durata della pena sospesa, ovvero anche con riferimento al criterio, di cui al combinato disposto degli artt. 18-bis disp. coord. trans. C.p., e 54, comma 2, del D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, della durata massima di sei mesi».
In merito alla prima questione si registra nella giurisprudenza di legittimità un contrasto in merito alla latitudine del potere del giudice che procede ai sensi dell’art. 444 C.p.P. di subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena concordata dalle parti alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività nel caso in cui l’imputato abbia già usufruito in precedenza del beneficio.
Secondo un primo orientamento, decisamente maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, in tale caso la richiesta di concessione del beneficio avanzata nel rito speciale dall’imputato implica il consenso alla subordinazione del beneficio all’adempimento di uno degli obblighi previsti dall’art. 165, comma primo, C.p., trattandosi di prescrizione che il giudice deve obbligatoriamente disporre a norma del secondo comma del medesimo articolo (Cass., Sez. 3, n. 7604 del 22/10/2019; Sez. 5, n. 49481 del 13/11/2019; Sez. 5, n. 11269 del 16/1/2019; Sez. 5, n. 51755 del 17/10/2018; Sez. 6, n. 19882 del 24/4/ 2018).
In tal senso si è ulteriormente argomentato come l’imputato, chiedendo la sospensione della pena, «di fatto» esprima la propria non opposizione all’applicazione dell’art. 165, comma secondo, C.p., il quale sottrae qualsiasi margine di discrezionalità al giudice nel subordinare il beneficio, se l’imputato stesso ne abbia già usufruito in precedente occasione (Cass., Sez. 6, n. 13984 del 4/3/2014).
In alcune pronunzie si è avuto cura di ribadire, in continuità con quanto affermato da Sez. U, n. 10 del 11/05/1993, che, in linea generale, al giudice al quale sia sottoposta una richiesta concordata di applicazione della pena, subordinata alla sospensione condizionale della stessa, non sia consentito alterare il relativo accordo fra le parti con l’imposizione di una condizione per la fruizione del beneficio che risulterebbe estranea al “patto” siglato dalle parti.
Tuttavia si è al contempo precisato che la validità del principio è limitata all’ipotesi in cui la previsione di obblighi condizionanti l’applicazione del beneficio sia stabilita dalla legge in via facoltativa e non quale obbligo, come, invece e per l’appunto, previsto dal secondo comma dell’art. 165 C.p. nel caso in cui l’imputato ne abbia già usufruito (Cass., Sez. 3, n. 4426 del 24/10/2019; Sez. 6, n. 11383 del 29/01/2018).
La deroga al principio generale dell’intangibilità dell’accordo viene altresì giustificata evidenziando come il carattere cogente della disposizione da ultima citata sia invero compatibile con lo stesso, in quanto proprio la dimensione obbligatoria dell’istituto configura l’imposizione come una conseguenza necessaria della richiesta di rinnovazione del beneficio e, pertanto, inclusa nell’orizzonte di adesione dell’imputato che proponga un accordo comprendente tale rinnovazione (Cass., Sez. 5, n. 13534 del 24/1/2017; nello stesso senso Sez. 3, n. 4426 del 24/10/2019, per la quale in tal caso la richiesta di patteggiamento deve considerarsi «integrata ex lege»).
Va, infine, evidenziato che, nell’ambito dell’orientamento in esame, non si registra, invece, unanimità di vedute sulla facoltà delle parti di estendere il negozio processuale anche alle prescrizioni cui dovrebbe essere subordinata la concessione della sospensione condizionale nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 165 C.p. Facoltà espressamente esclusa in alcune occasioni in ragione della natura cogente della disposizione citata (Cass., Sez. 5, n. 11269 del 16/1/2019; Sez. 6, n. 19882 del 24/4/2018) e che, invece, di fatto è stata riconosciuta in un caso in cui la Corte ha negato la configurabilità del consenso implicito alle altre condotte riparatorie, laddove l’imputato aveva specificamente prestato il consenso alla subordinazione del beneficio al risarcimento del danno (Cass., Sez. 3, n. 7604 del 22/10/2019).
Come accennato, nella giurisprudenza di legittimità si è manifestato anche un orientamento di segno diametralmente opposto, secondo il quale deve, invece, ritenersi preclusa al giudice del patteggiamento la possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena all’adempimento di uno degli obblighi previsti dall’art. 165, primo comma, C.p., qualora questo non abbia costituito oggetto dell’accordo tra le parti, anche quando trattasi di prescrizione che il giudice deve necessariamente disporre a norma del secondo comma del medesimo articolo (Cass., Sez. 3, n. 25349 del 10/04/2019; Sez. 6, n. 44775 del 20/10/2015; Sez. 2, n. 38783 del 26/10/2006).
La Sez. 3, n. 25349 del 2019 – che è quella ad aver maggiormente argomentato le ragioni dell’indirizzo interpretativo in esame – prende le mosse dai principi affermati dalle già menzionate Sezioni Unite 1993, ma si discosta dall’orientamento precedentemente esaminato ritenendoli applicabili anche nei casi in cui la sospensione condizionale della pena debba necessariamente essere subordinata dal giudice all’adempimento di uno degli obblighi previsti dalla legge, avendo l’imputato già usufruito del beneficio evidenziando. In proposito evidenzia come, pur vertendosi in ipotesi di statuizione obbligatoria, essa non ha un contenuto prefissato, in quanto la scelta della specifica misura da applicare e la determinazione delle relative modalità è in definitiva rimessa dal secondo comma dell’art. 165 C.p. all’apprezzamento discrezionale del giudice.
Si sostiene, quindi, che non è configurabile un consenso implicito alla subordinazione della sospensione condizionale della pena all’adempimento a uno degli obblighi di legge, neppure allorquando tale subordinazione sia imposta dalla legge, atteso che il contenuto discrezionale della condizione apposta alla concessione del beneficio deve formare oggetto in maniera esplicita del consenso e dell’accordo.
Conseguentemente, nel caso in cui la richiesta di patteggiamento proveniente da un imputato che abbia già usufruito del beneficio abbia avuto ad oggetto soltanto la richiesta (incondizionata) di sospensione condizionale della pena, il giudice, non potendo alterare l’accordo intervenuto tra imputato e pubblico ministero, deve respingere la richiesta di patteggiamento per violazione dell’art. 165, secondo comma, C.p.
Sostanzialmente riconducibili all’orientamento in esame sono anche quelle pronunzie le quali hanno escluso che il giudice del patteggiamento possa discrezionalmente determinare la durata dell’attività non retribuita in favore della collettività a cui le parti abbiano subordinato la richiesta concessione della sospensione condizionale della pena (Cass., Sez. 2, n. 27633 del 14/05/2021; Sez. 4, n. 17651 del 11/03/2008).
Tale principio è affermato sulla premessa che la richiesta di patteggiamento può essere subordinata alla sospensione della pena, a sua volta condizionata ad uno degli adempimenti previsti dall’art. 165 C.p. (così, esplicitamente, Cass., Sez. 4, n. 17651 del 2008), e che quindi tanto la sospensione condizionale della pena quanto gli obblighi a cui subordinarla possano formare oggetto dell’accordo tra le parti.
Al riguardo Cass., Sez. 2, n. 27633 del 202, ha poi evidenziato come – a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, ove, a fronte della richiesta del beneficio da parte dell’interessato, è rimessa al giudice la relativa valutazione “in tutte le sue componenti“, ivi compresa la determinazione della durata della prestazione, in presenza della “non opposizione” del condannato – nel rito ex art. 444 e ss. C.p.P. «il giudice non ha alcun potere discrezionale sulla entità e natura della pena da applicare, dovendosi limitare a ratificare l’accordo tra le parti». Proprio per la natura di tale ruolo del giudice, è dunque qualificabile come errore materiale emendabile l’omessa indicazione nel dispositivo della statuizione, richiesta dalle parti, di sospensione dell’esecuzione della pena applicata su richiesta delle parti.
Conseguentemente «in caso di richiesta di applicazione concordata della pena subordinata alla sua sospensione condizionale, le parti possono ulteriormente subordinare la concessione del beneficio [….] alla prestazione da parte dell’imputato di attività non retribuita in favore della collettività, purché specifichino il termine di durata della prestazione», dovendo il giudice, in mancanza di tale specificazione, rigettare l’istanza di applicazione della pena, in quanto rientra nei poteri dello stesso la determinazione di tale durata, ma non quello di modificare l’accordo tra le parti, integrandolo con la determinazione di tale durata. In senso conforme si è pronunziata anche Sez. 4, n. 17651 del 2008, la quale ha altresì specificato che tale conclusione è coerente con la considerazione per cui un consapevole ed effettivo consenso dell’imputato richiede la previa conoscenza delle modalità dell’obbligo lavorativo, naturalmente anche in termini di durata delle stesse.
Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto descritto debba essere ricomposto aderendo al secondo degli orientamenti esaminati.
Come illustrato, la questione controversa riguarda la definizione delle condizioni di operatività, nel rito patteggiato, del disposto dell’art. 165, comma secondo, C.p., per il quale la sospensione condizionale della pena, qualora sia concessa a persona che ne abbia già usufruito, deve essere subordinata all’adempimento di uno degli obblighi previsti nel primo comma dello stesso articolo, ossia a quelli della restituzione, del pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno ovvero di provvisionale, della pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno, dell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, infine, della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa.
La formulazione vigente delle due disposizioni è frutto delle modifiche apportate dall’art. 2 comma 1, lett. a) e b), legge 11 giugno 2004, n. 145. Il testo originario del primo comma dell’art. 165, infatti, non contemplava, tra gli adempimenti, cui facoltativamente il giudice poteva subordinare la concessione della sospensione condizionale, anche la prestazione dell’attività non retribuita, mentre il comma successivo rendeva obbligatoria la subordinazione nell’eventualità di una ulteriore concessione del beneficio, a meno che assolvere le condizioni elencate nello stesso primo comma non si rivelasse impossibile.
La legge citata ha, dunque, integrato l’elenco degli adempimenti previsto dal primo comma, aggiungendovi la possibilità per il giudice di ordinare l’esecuzione di attività non retribuita in favore della collettività, ma solo se l’imputato non vi si opponga. Conseguentemente il legislatore ha eliminato l’inciso finale del secondo comma, posto che quantomeno la prestazione dell’attività non retribuita deve ritenersi sempre possibile, atteso che la sua esecuzione dipende esclusivamente dalla volontà dell’imputato di non opporvisi.
In definitiva, alla luce delle modifiche apportate dalla novella, qualora intenda reiterare la concessione del beneficio, il giudice deve sempre subordinare la sospensione della pena quantomeno alla prestazione dell’attività non retribuita e, se l’imputato vi si opponga, deve astenersi dall’accordarlo.
L’indirizzo maggioritario fonda il principio che si intende disattendere proprio sul rinnovato carattere cogente della previsione di cui al secondo comma dell’art. 165, sottolineando come il giudice non possa sottrarvisi nemmeno in caso di patteggiamento, giacchè anche in questo caso egli deve subordinare la concessione della sospensione della pena ad uno degli adempimenti indicati nel primo comma del medesimo articolo e desumere, in particolare, la non opposizione dell’imputato alla prestazione dell’attività non retribuita dalla stessa richiesta di riconoscimento del beneficio.
In altri termini, secondo questa impostazione, la norma sostanziale rappresenta il fulcro esclusivo attorno al quale è necessario ricostruire la soluzione della questione controversa, che rimarrebbe dunque di fatto indifferente al rito con il quale si procede. E’ proprio questo approccio a non risultare condivisibile e a rendere preferibile l’indirizzo minoritario, le cui conclusioni costituiscono invece il precipitato di una elaborazione sviluppata in funzione della struttura del rito speciale, senza per questo pretermette o stravolgere il significato dei primi due commi dell’art. 165 C.p.
Il profilo effettivamente problematico, infatti, non è quello di stabilire i confini esegetici di tali disposizioni, bensì la tenuta dell’assunto per cui, chiedendo di patteggiare una pena sospesa, l’imputato implicitamente acconsentirebbe alla subordinazione della concessione del beneficio ad una delle prescrizioni imposte dal citato art. 165. E’, dunque, il contenuto della legge processuale e non già di quella sostanziale ad essere in discussione ed è pertanto dall’assetto del rito speciale che è necessario prendere le mosse.
Nella giurisprudenza di legittimità si è rapidamente consolidato il principio per cui la richiesta di applicazione della pena e l’adesione prestata dall’altra parte concretano un negozio bilaterale di natura processuale che si perfeziona con la ratifica del giudice (ex multis Cass., Sez. 3, n. 10286 del 13/02/2013; Sez. 4, n. 16832 del 11/04/2008; Sez. 3, n. 18735 del 27/03/2001; Sez. 1, n. 1468 del 30/03/1994). Esso è stato implicitamente ribadito a livello normativo anche dalla recente riconfigurazione della disciplina dell’impugnazione della sentenza di patteggiamento introdotta nel comma 2-bis dell’artt. 448 C.p.P. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103.
Più complessa appare, invece, l’attività di ricostruzione dei limiti del potere dispositivo delle parti e di quello del giudice cui è affidata la ratifica dell’accordo.
In tal senso è stata invero la Corte costituzionale, nell’immediatezza dell’entrata in vigore del codice, a correggere anzitutto la più stridente aporia del testo originario dell’art. 444, comma 2, C.p.P., dichiarandone l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non consentiva al giudice di valutare la congruità della pena indicata dalle parti e, conseguentemente, di rigettare la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione (Corte cost., sent. n. 313 del 1990).
Una volta chiarito che quella del giudice del patteggiamento non è una funzione meramente “notarile“, ma, al contrario, assume effettiva natura giurisdizionale (anche quando lo stesso procede alla mera verifica dei profili di legittimità della richiesta e del suo contenuto), è stata ancora la Consulta ad evidenziare l’inscindibile legame esistente tra la componente negoziale del rito e lo spazio cognitivo del giudice, evidenziando che questi rimane vincolato al contenuto dell’accordo sul merito dell’imputazione e della commisurazione della pena concluso dalle parti, nel senso che gli è consentito soltanto di accoglierlo nei termini proposti ovvero di rigettarlo e procedere oltre (Corte cost., n. 66 del 1990; Corte cost., sent. n. 251 del 1991; Corte cost., sent. n. 155 del 1996 e, da ultima, Corte cost., sent. n. 394 del 2002).
E’ sulla scorta del quadro generale dei rapporti tra accordo negoziale e controllo giudiziale disegnato dalla giurisprudenza costituzionale che le Sezioni Unite hanno successivamente definito i poteri del giudice del patteggiamento in ordine alla concessione della sospensione condizionale della pena. In tal senso Sez. U, n. 5882 del 11/05/1993, nel risolvere il contrasto in ordine al potere del giudice di disporre, con la sentenza resa a norma dell’art. 444 C.p.P., la sospensione condizionale della pena anche quando la concessione del beneficio non abbia formato oggetto della pattuizione, ha escluso che egli possa, di sua iniziativa, concedere il beneficio, ritenendo tale decisione preclusa, per l’appunto, dal vincolo negativo costituito dai termini dell’accordo intervenuto tra le parti. Nell’occasione la sentenza ha, però, riconosciuto la possibilità di applicare il beneficio, se vi è il consenso di entrambe le parti, anche qualora l’imputato non abbia subordinato, ai sensi dell’art. 444, comma 3, C.p.P., la richiesta alla sua concessione. In proposito la pronunzia in esame ha sottolineato che anche in tale ipotesi la statuizione del giudice trova il suo fondamento primario nella concorde volontà delle parti e che dal contenuto letterale della norma citata si evince come la subordinazione dell’efficacia della richiesta costituisca soltanto uno dei modi attraverso i quali può estrinsecarsi l’accordo sul punto, concludendo che, qualora il giudice ritenga di non poter accogliere la domanda di sospensione, non è tenuto a rigettare il patteggiamento, ma soltanto ad esplicitare in sentenza i motivi della sua decisione.
La giurisprudenza successiva ha continuato, anche di recente, a ribadire questi principi, escludendo che il giudice possa concedere d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena, cui le parti non abbiano subordinato la richiesta di applicazione della pena concordata o, comunque, non abbiano concordemente consentito (Cass., Sez. 2, n. 42973 del 13/06/2019; Sez. 2, n. 21071 del 15/04/2016; Sez. 3, n. 31633 del 07/04/2015; Sez. 4, n. 40950 del 21/10/2008; Sez. 1, n. 9228 del 14/02/2008; Sez. 4, n. 21508 del 28/02/2007; Sez. 3, n. 40232 del 14/07/2004).
Successivamente Sez. U, n. 10 del 1993, in precedenza richiamata ha, invece, escluso che nel rito speciale il giudice possa, alterando il contenuto dell’accordo intervenuto tra le parti, subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena all’adempimento di un obbligo, alla cui imposizione la legge lo autorizzi.
L’elaborazione compiuta nell’arco di tre decenni dalle Sezioni Unite in ordine ai rapporti tra la base negoziale del rito ed il potere decisionale del giudice consente di affermare come l’equilibrio del modello processuale consista nella necessaria corrispondenza tra le due componenti menzionate.
Come già evidenziato, il ruolo assegnato al giudice non è meramente “notarile“, atteso che nell’accogliere o rigettare la richiesta di patteggiamento egli esercita un potere tipicamente giurisdizionale. Il suo orizzonte decisionale è, però, definito dal contenuto dell’accordo raggiunto dalle parti, residuando in suo favore spazi cognitivi autonomi limitatamente a quei contenuti estranei, per loro natura o per espressa volontà della legge, alla struttura negoziale del rito e la cui ampiezza varia, a causa del regime differenziato introdotto dalla legge n. 134 del 2003, in ragione dell’entità della pena in concreto concordata (ma è appena il caso di sottolineare come la geometria variabile del potere decisionale del giudice, anche nel caso del patteggiamento c.d. “allargato“, dipenda non solo dalla disciplina normativa, ma inevitabilmente anche dalla scelta operata dalle parti).
Attraverso l’evoluzione normativa dell’istituto e la sua elaborazione giurisprudenziale, deve dunque ritenersi sia emerso nel tempo, con sempre maggiore nitidezza, come l’essenza del patteggiamento non si esaurisca nella retribuzione premiale della rinunzia dell’imputato a contestare l’accusa ed al contraddittorio sulla prova, ma sia definita altresì dalla prevedibilità in concreto della decisione, ossia della possibilità offerta allo stesso imputato di avere il controllo sul contenuto della sentenza. Ed infatti, se la struttura negoziale del rito ne assicura la compatibilità costituzionale in virtù dello schema derogatorio di cui all’art. 111, comma 5, Cost., è necessario che l’imputato, nel disporre dei propri diritti costituzionalmente garantiti, possa determinarsi nella piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche della sua rinunzia (cfr. Corte cost., sent. n. 394 del 2002, cit.). Consapevolezza che non può ritenersi sussistente se la decisione che recepisce l’accordo sulla pena può assumere contenuti che trascendono quelli concordati o predeterminati dalla legge (che, in quanto tali, sono prevedibili dalle parti al momento in cui concludono l’accordo).
Ed è proprio ad una maggiore coscienza del valore incentivante e di garanzia
della prevedibilità della decisione che possono dunque attribuirsi le scelte operate dal legislatore nel tempo al fine di ridurre gli spazi di integrazione della base negoziale espressamente attribuiti al giudice dall’assetto normativo originario, così come l’impegno serbato dalle Sezioni Unite nel correggere interpretazioni emerse nella giurisprudenza di merito e in quella delle Sezioni semplici e tese a riconoscerne di ulteriori, sfruttando l’ambigua o lacunosa formulazione di tale assetto originario.
Le scelte normative ed interpretative risultano poi in sintonia con il volto convenzionale delle procedure transattive diffusesi negli ordinamenti processuali europei per come definito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
E’ dunque alla luce di queste coordinate esegetiche che va rinvenuta la soluzione della questione controversa, muovendo per l’appunto e come già accennato dallo statuto del rito speciale.
Se, come si è detto, l’art. 444 C.p.P. costituisce la base legale del patteggiamento, definendo il contenuto del negozio stipulato tra le parti ed il confine del suo carattere vincolante per il giudice, non è dubbio che, ai sensi del terzo comma del suddetto articolo, l’accordo può riguardare anche la concessione della sospensione condizionale della pena.
Dal tenore di tale disposizione implicitamente si ricava che all’imputato ed al pubblico ministero è riconosciuta la facoltà di concordare il beneficio anche quando alla sua concessione non viene espressamente subordinata l’efficacia della richiesta di applicazione della pena. Ed è sempre la norma menzionata a stabilire l’effetto vincolante dell’eventuale estensione dell’accordo alla sospensione della pena, limitandolo all’ipotesi in cui la sua concessione sia stata posta come condizione necessaria del negozio processuale.
Ma come precisato da Sezioni Unite ciò non significa che, in assenza di qualsiasi pattuizione sul punto, il giudice non sia in alcun modo vincolato dalla scelta operata dalle parti e possa, dunque, autonomamente concedere il beneficio. Infatti, la stessa attribuzione a queste ultime della facoltà di estendere l’accordo alla sospensione e di modulare l’effetto vincolante della relativa pattuizione implica che è loro parimenti assegnata quella di non invocare il beneficio.
Ciò equivale a dire che la concessione della sospensione rientra nel potere dispositivo delle parti, ma che, in deroga a quanto previsto dal comma 2 dell’art. 444, il successivo terzo comma limita l’effetto vincolante dell’accordo sul punto al solo caso in cui l’efficacia della richiesta di applicazione della pena sia stata espressamente subordinata alla sua sospensione. In assenza di tale condizione, dunque, eccezionalmente al giudice è consentito accogliere il patteggiamento anche senza recepire l’accordo nella sua interezza, mentre proprio la configurazione normativa dei limiti della clausola derogatoria gli impedisce di decidere ultra petitum, accordando il beneficio quando le parti non ne hanno richiesto la concessione.
Alla luce delle rassegnate conclusioni è a questo punto inevitabile ritenere che la soluzione corretta della questione controversa sia quella propugnata dall’indirizzo minoritario. Al giudice del patteggiamento non è consentito subordinare motu proprio la concessione della sospensione condizionale concordata dalle parti ad uno degli obblighi previsti dall’art. 165 C.p., anche nel caso di reiterazione del beneficio, atteso che la scelta della prescrizione da imporre e la modulazione del relativo contenuto non sono elementi predeterminati dalla legge, ma rimessi alla discrezionalità del decidente, con la conseguente sottrazione alle parti della possibilità di prevedere come verrà in concreto esercitato il relativo potere.
Risulta dunque fuorviante il dato sul quale l’orientamento maggioritario fonda le proprie conclusioni, ossia il carattere cogente del disposto del secondo comma dell’art. 165 C.p. Come detto, l’attuazione dell’obbligo di subordinare la concessione del beneficio ad una prestazione necessita, comunque, della mediazione dei poteri discrezionali del giudice, il cui concreto esercizio rimane imprevedibile per l’imputato, pur riflettendosi in misura rilevante su diritti fondamentali, nonché sulla stessa eseguibilità della pena patteggiata. E’ dunque escluso che lo stesso imputato abbia, in tal caso, la necessaria consapevolezza delle conseguenze giuridiche della sua richiesta nel momento in cui la presenta.
La determinazione della prestazione e delle sue modalità di esecuzione non possono, quindi, considerarsi la mera conseguenza di un automatismo normativo implicitamente accettato all’atto della subordinazione dell’accordo al riconoscimento della sospensione condizionale, come, invece, ritenuto dalle pronunzie riconducibili al succitato orientamento.
Respingere tale impostazione non significa, peraltro, che la previsione di cui al secondo comma dell’art. 165 C.p. perde il suo carattere cogente e che l’imputato può potestativamente paralizzarne l’operatività, ottenendo la concessione del beneficio anche senza condizionarlo all’esecuzione di una delle prestazioni di cui è, invece, imposta l’applicazione.
L’equivoco sotteso all’interpretazione proposta dall’orientamento maggioritario è, infatti, che riconoscere al giudice il potere di integrare l’accordo condizionando la concessione del beneficio richiesto sia imposto dalla necessità di non disapplicare la norma sostanziale.
La natura obbligatoria di quest’ultima non viene meno solo perché le parti non ne hanno previsto l’applicazione e, dunque, è escluso che il giudice abbia il potere di concedere la sospensione della pena senza subordinarla ad una delle prestazioni indicate dall’art. 165 C.p. quando ciò è imposto dalla norma. Allo stesso modo, però, e per le ragioni già esposte, non può essere riconosciuto al giudice il potere di integrare la richiesta, una volta che le parti hanno vincolato, ai sensi dell’art. 444, comma 3, C.p.P., la decisione finale alla concessione del beneficio.
Il conflitto tra le due norme è, peraltro, solo apparente, poiché quella processuale impone il rigetto integrale della richiesta di patteggiamento subordinata alla concessione della sospensione condizionale quando il giudice ritiene che il beneficio non possa essere riconosciuto. E certamente quest’ultimo non può essere riconosciuto qualora l’effetto vincolante dell’accordo non consenta di dare attuazione al disposto l’art. 165, comma secondo, C.p., pur ricorrendo i presupposti per la necessaria applicazione di tale norma.
Non potendo, dunque, concedere la sospensione in maniera incondizionata, il giudice si trova nell’impossibilità di accogliere la richiesta di concessione della sospensione condizionale della pena e deve, conseguentemente, rigettare il patto nella sua integralità. Ed è dunque onere delle parti che intendano avvalersi della clausola di cui all’art. 444, comma 3, C.p.P., pattuire anche le condizioni che consentono di concedere il beneficio nel rispetto del citato secondo comma dell’art. 165, C.p.
E’ a questo punto necessario chiarire che le parti possono, per l’appunto, accordarsi anche sulla subordinazione della sospensione condizionale ad uno dei menzionati obblighi.
Anche questa affermazione trova un solido fondamento nel disposto dell’art. 444, comma 3, C.p.P., dal quale va tratta la conclusione che la richiesta del beneficio può, per implicita volontà legislativa, costituire un elemento dell’accordo negoziale sebbene le parti non abbiano subordinato quest’ultimo al recepimento di tale richiesta. Se la concessione della sospensione condizionale rientra nel potere dispositivo delle parti è, infatti, illogico ritenere, come pure hanno fatto alcune pronunzie (Cass., Sez. 5, n. 11269 del 16/1/2019; Sez. 6, n. 19882 del 24/4/2018), che tale potere non riguardi anche le condizioni alle quali il beneficio viene riconosciuto, attese che le stesse sono parte integrante della disciplina dell’istituto ed influiscono in maniera tutt’altro che marginale sulla sua concreta applicazione e sui diritti dell’imputato.
Semmai la questione è altra, ossia quale sia il valore vincolante per il giudice
della clausola che ha ad oggetto la subordinazione della sospensione della pena.
Ma in proposito è agevole riconoscere che, una volta ammessa la negoziabilità di tale aspetto, una divergente decisione del giudice si risolverebbe comunque in una inammissibile alterazione dell’accordo, tale da rendere non più prevedibile il contenuto della sentenza. E’ dunque evidente, come accennato, che anche in tal caso lo stesso giudice potrà o recepire l’accordo nella sua totalità ovvero rigettare integralmente la richiesta di patteggiamento, valutando incongrue le scelte operate dalle parti.
Alla luce di tali considerazioni è poi indubitabile che – come sostenuto in alcune pronunzie dell’orientamento minoritario (Cass., Sez. 2, n. 27633 del 14/05/2021; Sez. 4, n. 17651 del 11/03/2008) – rientri nel potere negoziale delle parti non solo l’indicazione dell’obbligo cui subordinare la concessione del beneficio, ma anche del suo contenuto. Con riguardo allo specifico caso della prestazione di attività non retribuita, ciò significa che le parti hanno dunque la facoltà di concordarne durata e modalità di esecuzione, vincolando il giudice alla loro pattuizione.
A ulteriore corollario va poi precisato che, qualora l’imputato non abbia personalmente prestato il proprio consenso al patto conferendo invece a tal fine procura speciale al proprio difensore, è compito del giudice verificare – eventualmente avvalendosi dei poteri attribuitigli dall’art. 446, comma 5, C.p.P. – l’effettiva legittimazione di quest’ultimo a concordare anche l’imposizione degli obblighi previsti dall’art. 165 C.p. ed il loro contenuto.
Infine va precisato come la violazione del divieto di subordinare ex officio la sospensione condizionale in caso di reiterazione della richiesta del beneficio non opera esclusivamente nell’ipotesi disciplinata dal menzionato terzo comma dell’art. 444 C.p.P.
Come già ricordato, infatti, il riconoscimento della sospensione condizionale può costituire oggetto dell’accordo anche qualora l’efficacia della richiesta di patteggiamento non venga subordinata alla sua concessione. In tal caso, come pure si è detto, l’effetto vincolante del negozio processuale non si estende, per implicita volontà del legislatore, al suo contenuto eventuale, ben potendo il giudice accogliere il patteggiamento senza riconoscere il beneficio.
Ciò che non gli viene consentito, invece, è integrare il patto, subordinando la sospensione ad un obbligo non previsto dalle parti, poiché, ancora una volta, la loro volontà non è interpretabile in termini di implicito consenso all’esercizio dei poteri discrezionali del giudice in ordine alla selezione e configurazione dell’obbligo subordinante. Il che non significa che lo stesso giudice – come avviene, invece, nell’ipotesi in cui l’efficacia della richiesta di applicazione della pena venga subordinata al riconoscimento del beneficio – sia tenuto a rigettare il patteggiamento, potendo egli limitarsi a non concedere la sospensione condizionale della pena, giustificando la propria decisione proprio in riferimento alla mancata previsione della condizione di cui il secondo comma dell’art. 165 C.p. pretende, invece, l’applicazione.
Così ricostruito il sistema, perde a questo punto di significato l’ulteriore questione – pure prospettata dall’ordinanza di rimessione – relativa all’idoneità della mera richiesta di concessione della sospensione condizionale formulata con il patteggiamento ad integrare implicitamente il requisito, previsto dall’art. 165 C.p., della “non opposizione” dell’imputato alla subordinazione del beneficio alla prestazione dell’attività non retribuita in favore della collettività. Infatti, una volta escluso che il giudice abbia, nel rito speciale, il potere di integrare o modificare l’accordo che non contempli la subordinazione della concessione del beneficio ovvero lo subordini ad uno degli altri obblighi previsti dalla legge, risulta irrilevante stabilire se siglando il patto abbia o meno implicitamente inteso non opporsi alla prestazione di tale attività. Per converso, qualora già le parti si siano accordate per subordinare alla medesima attività la concessione della sospensione condizionale, è ovvio che in questo caso l’adesione dell’imputato al patto in tal senso configurato realizza il presupposto richiesto dal primo comma del citato art. 165 C.p. per l’imposizione dell’obbligo.
Sulla prima questione sollevata dall’ordinanza di rimessione deve dunque essere formulato il seguente principio: «Nel procedimento speciale di cui all’art. 444 C.p.P., l’accordo delle parti sulla applicazione di una pena detentiva di cui viene richiesta la sospensione condizionale deve estendersi anche agli obblighi ulteriori eventualmente connessi ex lege alla concessione del beneficio, indicandone, quando previsto, la durata, con la conseguenza che, in mancanza di pattuizione pure su tali elementi, la sospensione non può essere accordata e, qualora al suo riconoscimento sia stata subordinata l’efficacia della stessa richiesta di applicazione della pena, questa deve essere integralmente rigettata».
Corte di Cassazione Sez. U., n. 23400 Anno 2022