La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la condotta di atti persecutori in riferimento all’orientamento sessuale della vittima. La condotta ex art. 612 bis C.p. è costituita in insulti e messaggi denigratori contro la vittima, evocativi delle tendenze sessuali della stessa.
Nel caso di specie, infatti, il continuo riferimento all’orientamento sessuale della vittima – qualificata in modo volutamente sprezzante come “lesbica” e “puttana” in numerosi messaggi e persino nel nome dato al gruppo whatsapp creato per denigrare la vittima in ambiente di lavoro, con conseguente violazione anche della privacy – palesa la precisa volontà di colpire la vittima nella sua identità di genere e/o a causa della sua correlata scelta sessuale.
Tanto premesso, occorre poi sottolineare come, in riferimento alla tematica in oggetto, vada considerata l’impostazione della Corte EDU, che ha evidenziato come una legislazione penale di contrasto ai discorsi d’odio contribuisca alla corretta realizzazione della libertà di manifestazione del pensiero, in una società democratica e plurale, nonchè in conformità ai principi di inclusione ed uguaglianza sanciti dalla Convenzione (Lilliendahl c. Islanda, del 12 maggio 2020), affermando, anzi, che debba essere escluso come l’adozione di leggi che perseguano gli autori di dichiarazioni di incitamento all’odio nei confronti di persone LGBT, possa costituire un’illegittima limitazione dell’esercizio della libertà di espressione (Vejdeland ed altri c. Svezia, del 9 febbraio 2012), avendo già in passato condannato alcuni Stati per non aver predisposto idonee misure di repressione dei fenomeni omotransfobici, arrivando a sollecitare esplicitamente l’adozione di strumenti di adeguata reazione sanzionatoria, da parte dei rispettivi ordinamenti, di queste discriminazioni, in quanto rientranti tra gli obblighi positivi imposti agli Stati dal diritto al rispetto per la vita privata e dal divieto di discriminazione (Identoba ed altri c. Georgia, del 12 maggio 2015; M.C. e A.C. c. Romania, del 12 aprile 2016; Beizaras e Levickas c. Lituania, del 14 gennaio 2020).
In tale contesto, quindi, va declinata l’identità di genere, ossia la percezione che ciascuna persona ha di sè come uomo o donna, il che non necessariamente corrisponde con il sesso attribuito alla nascita; il genere, quindi, indica qualunque manifestazione esteriore di una persona, che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna.
Tale espressione si rinviene per la prima volta – in riferimento ad un testo normativo – nella Direttiva 2011/95 UE, sull’attribuzione della qualifica di rifugiato, recepita nel D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 18, che fa espressamente riferimento al concetto di identità di genere, nella trattazione degli aspetti che possono costituire motivi di persecuzione; essa è, inoltre, contenuta anche nella Direttiva 2012/29 UE, recepita dall’Italia con D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 – che prevede l’obbligo per gli Stati di proteggere le persone che subiscono violenza in quanto appartenenti ad un genere, oppure a causa della propria identità di genere, oppure a causa di motivi o finalità di odio o discriminazione fondati sul genere, identità o espressione di genere -, nonchè nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul).
La giurisprudenza della Corte costituzionale, a sua volta, con la sentenza n. 221/2015, ha riconosciuto il diritto all’identità di genere quale “elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona“, principio poi ribadito nella sentenza n. 180/2017, secondo cui va affermato come “l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere“. L’identità di genere, quindi, valorizza la fluidità delle appartenenze, attribuendo importanza allo spazio di autodeterminazione individuale in una prospettiva di rifiuto degli stereotipi e, quindi, di coesistenza con il concetto di “sesso“, che, invece, mette in risalto la dimensione biologica.
Sotto il, profilo del risarcimento dei danni nei confronti della parte civile si evidenzia la natura squisitamente non patrimoniale del danno, rilevante a livello morale ed esistenziale, oggetto di una liquidazione in via equitativa.
In particolare il danno morale ed esistenziale rileva sotto il peculiare aspetto del “genere” della persona offesa – come enucleabile dalle fonti internazionali, con particolare riferimento alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del 11/05/2011, in relazione specificamente all’orientamento sessuale, e come, nel caso in esame, il danno morale si fosse verificato a seguito delle sofferenze causate alla vittima dalla condotta ingiuriosa e volgare, desunta dalle invettive subite a causa del proprio orientamento sessuale, oltre che dalle gravi minacce indirizzate alla stessa, mentre il danno esistenziale è scaturito dalle conseguenze pregiudizievoli sofferte dalla vittima nella sua dimensione lavorativa e sociale.
Corte di Cassazione n. 30545/2021