Pena detentiva per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa
In primis l’inflizione di una pena detentiva per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa sarebbe in contrasto con l’art. 10 CEDU?
A questo proposito, appare opportuno rievocare – quale autorevole riferimento per un approccio costituzionalmente e convenzionalmente orientato sul tema – la recentissima ordinanza n. 132 del 2020 (pronunziata a seguito della camera di consiglio del 9 giugno 2020 e depositata il successivo giorno 26) della Corte Costituzionale; la Consulta – investita dai Tribunali di Salerno e Bari di analoghe questioni di costituzionalità dell’art. 595 c.p., comma 3 e la L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13, con riferimento alla previsione, alternativa o cumulativa, della pena detentiva accanto a quella pecuniaria per la diffamazione aggravata a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato – ha rinviato la decisione al 22 giugno 2021, spiegando che il rinvio si è imposto – nell’ottica di una leale collaborazione istituzionale – in attesa dell’evoluzione dei progetti di legge dedicati alla revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa, che risultano allo stato in corso di esame avanti alle Camere.
Ebbene, a prescindere dalla natura interlocutoria del provvedimento, la Consulta ha tuttavia fornito, in primo luogo, alcune direttrici ermeneutiche utili all’inquadramento dei limiti della compatibilità convenzionale della previsione, per la diffamazione a mezzo stampa, anche della pena detentiva, nell’ottica del rispetto dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 10 della CEDU, norme intorno alle quali – pur con leggere differenze di impostazione – vertono prevalentemente i dubbi di costituzionalità dei Giudici rimettenti (il Tribunale Di Salerno dubita anche della compatibilità con gli artt. 3, 21, 25 e 27 Cost.).
La Consulta ha preso le mosse dalla rievocazione della sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo del 17 dicembre 2004 Cumpn e Mazre contro Romania, concernente il ricorso di due giornalisti, condannati per diffamazione in quanto autori di un articolo nel quale accusavano di corruzione un Giudice. Nell’occasione, la Corte EDU, pur riconoscendo la legittimità dell’affermazione di responsabilità penale degli imputati (i fatti erano stati distorti ed erano privi di adeguati riscontri), ritenne tuttavia che l’irrogazione nei loro confronti di una pena di sette mesi di reclusione non sospesa (ancorché in concreto non eseguita per effetto di un provvedimento di grazia presidenziale) costituisse un’interferenza sproporzionata con il loro diritto alla libertà di espressione, tutelata dal paragrafo 1 dell’art. 10 CEDU.
Il doveroso controllo, da parte degli Stati, sull’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge un’adeguata tutela della reputazione delle persone- sostennero i Giudici di Strasburgo – non può avvenire in una maniera tale da dissuadere indebitamente i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri, dissuasione che può discendere dallo spettro di una sanzione detentiva, il che può riverberarsi sul giudizio di proporzionalità, e dunque di legittimità alla luce della Convenzione, di tali sanzioni. Nell’occasione, la Corte – come pure ricorda la Consulta – concluse che “l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio (hate speech) o di istigazione alla violenza“.
Detti principi, come pure ha avuto cura di ricordare la Corte Costituzionale, sono stati poi costantemente ribaditi dalla Corte EDU nella propria successiva giurisprudenza, ivi comprese le sentenze 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia e 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia. In tali ultime pronunce, i Giudici di Strasburgo, da un lato, hanno ritenuto legittima l’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti da parte dei giudici italiani, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi controlli da parte del giornalista (ovvero del direttore responsabile); ma, dall’altro lato, hanno reputato sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica.
La Consulta ha, inoltre, ricordato che numerosi documenti degli organi politici del Consiglio d’Europa raccomandano agli Stati membri di rinunciare alle sanzioni detentive per il delitto di diffamazione, allo scopo di tutelare più efficacemente la libertà di espressione dei giornalisti e, correlativamente, il diritto dei cittadini a essere informati.
Non è, tuttavia, solo il quadro convenzionale che va riguardato: la Corte ha ricordato come il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, garantito dall’art. 21 Cost., sia “coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione” (sentenza n. 11 del 1968), “pietra angolare dell’ordine democratico” (sentenza n. 84 del 1969), “cardine di democrazia nell’ordinamento generale” (sentenza n. 126 del 1985 e, di recente, sentenza n. 206 del 2019). Ed è nell’ambito di tale diritto che si iscrive la libertà di stampa, quale irrinunciabile presidio per l’attuazione di un sistema democratico, che garantisce, da un lato, la libertà di espressione del giornalista e, dall’altro, il diritto all’informazione dei cittadini, assicurato dal pluralismo delle fonti informative.
Se quella tracciata è la direttrice concettuale che impone di tutelare la libertà di stampa dai condizionamenti che possano derivare dal rischio della detenzione, la Consulta, con precisi riferimenti giurisprudenziali, ha anche rimarcato che tale impostazione non può però tralasciare l’esigenza di garantire la reputazione della persona, che costituisce al tempo stesso un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost., una componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché un diritto espressamente riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Nè può essere trascurata -si legge altresì nell’ordinanza della Corte – la necessità di salvaguardare la dignità della persona, lesa dalla divulgazione di notizie false o attinenti esclusivamente alla propria vita privata.
Il cuore del problema è, dunque, quello di trovare il punto di equilibrio tra la libertà di stampa, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro. Soluzione alla quale la legislazione attuale – con la previsione in via alternativa o cumulativa, della pena detentiva – e l’esegesi di legittimità sul punto (con il ricorso ai criteri dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, della verità di essa o dell’assenza di colpa nel controllo delle fonti e della continenza formale) non forniscono più – a giudizio della Corte – una risposta adeguata.
Ciò con particolare riferimento al fatto che la giurisprudenza della Corte EDU, al di fuori di ipotesi eccezionali, considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive, ancorché sospese o in concreto non eseguite, nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui.
Conclude, pertanto la Corte, sostenendo che “Si impone, pertanto, una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina in questa sede censurata, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, nel senso ora precisato, con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti“.
Ciò a maggior ragione in quanto le vittime “sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima – in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale, professionale, politica – e per tutte le persone a essa affettivamente legate risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato“.
Il compito di individuare complessive strategie sanzionatorie che raggiungano l’indicato punto di equilibrio tra esigenze contrapposte è, prima di tutto) del legislatore; in questo quadro, la Consulta auspica la previsione di sanzioni penali non detentive, di rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica) e di efficaci misure di carattere disciplinare.
Quanto al ricorso alla pena detentiva, l’auspicio ne contempla l’utilizzo solo per quelle “condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio“.
Ebbene, al di là della “leale collaborazione istituzionale” con il Parlamento nell’ambito della quale si colloca la pronunzia interlocutoria in discorso, è evidente che essa fornisce una traccia esegetica di grande rilievo, che non può essere trascurata nell’ottica di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata del tema del trattamento sanzionatorio agitato dal ricorrente.
Secondo la direttrice segnata dal quadro normativo e da quello giurisprudenziale evocato dalla Consulta ed in attesa delle determinazioni del legislatore e di quelle, eventuali, della Consulta stessa, allo stato la scelta di applicare la pena detentiva non può che passare per la valutazione della portata delle condotte diffamatorie addebitate all’imputato; ciò allo scopo di apprezzarne – o meno – l’”eccezionale gravità” così come delineata dai precedenti sopra riportati, in presenza della quale sarebbe consentita l’applicazione della pena detentiva.
Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza 22 settembre 2020, n. 26509