La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la prosecuzione del procedimento in ipotesi di esito negativo della prova e di revoca dell’ordinanza di ammissione.
Nel caso di specie, il Giudice per le indagini preliminari dopo aver dichiarato l’esito negativo della messa alla prova in relazione di cui all’art. 187 commi 1 ed 1-quater C.d.S., ha rimesso gli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso.
Avverso l’ordinanza propone ricorso il Pubblico Ministero competente lamentando l’abnormità funzionale del provvedimento nella parte in cui ordina la restituzione degli atti al pubblico ministero, benché questi avesse già esercitato l’azione penale, formulando l’imputazione; al contempo rileva che il giudice per le indagini preliminari, così facendo, ha adottato un provvedimento che determina la stasi del procedimento, impedendone la prosecuzione.
La disciplina che regola la prosecuzione del procedimento in ipotesi di esito negativo della prova e di revoca dell’ordinanza di ammissione è contenuta rispettivamente nell’art. 464 septies, comma 2, C.p.P., secondo cui “In caso di esito negativo della prova, il giudice dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso“, e nell’art. 464 octies, comma 4 C.p.P. ove si stabilisce che “Quando l’ordinanza di revoca è divenuta definitiva, il procedimento riprende il suo corso dal momento in cui è rimasto sospeso e cessa l’esecuzione delle prescrizioni e degli obblighi imposti“.
In entrambe le ipotesi, dunque, il procedimento riprende il suo corso dal momento in cui era intervenuta la sua sospensione. E’ chiaro, nondimeno, che qualora venga meno la causa di sospensione è necessario individuare la fase processuale in cui si trovava il procedimento nel momento in cui la sospensione è conseguita all’ammissione alla messa alla prova.
La sospensione del procedimento con messa alla prova, introdotto con il titolo V bis, aggiunto al codice di procedura penale con l’art. 4 comma 1″, lett. a) della L. 28 aprile 2014, n. 67, presuppone, nell’ipotesi di richiesta dell’interessato formulata al giudice nel corso delle indagini preliminari, che il consenso del pubblico ministero sia sinteticamente motivato e prestato unitamente alla formulazione dell’imputazione.
La questione controversa sottesa alla decisione ed alla sua impugnazione riguarda, quindi, il valore dell’imputazione formulata con la prestazione del consenso, per il caso di richiesta introdotta nel corso delle indagini preliminari, come esercizio dell’azione penale.
E’ chiaro, infatti, che laddove si valorizzi il dato letterale di cui all’art. 405 C.p.P., che non indica fra le ipotesi di esercizio dell’azione penale quella prevista dal titolo V bis del codice di rito, deve ritenersi che l’imputazione formulata in occasione della prestazione del consenso alla messa alla prova di cui all’art. 464 ter C.p.P., non costituisca esercizio dell’azione penale, poiché tecnicamente la richiesta di ammissione interviene prima che il pubblico ministero vi provveda autonomamente. Con la conseguenza che la fase procedimentale nella quale il processo viene sospeso in caso di ammissione è quello precedente l’esercizio dell’azione penale.
Al contrario, laddove si ritenga che la formulazione dell’imputazione anche in forza dell’art. 464 ter, comma 3 C.p.P. implichi l’esercizio dell’azione penale il processo non potrà in alcun caso regredire alla fase delle indagini preliminari perché provveda ad un adempimento già svolto.
Ora, a sostegno della seconda opzione depone la lettura sistematica dell’istituto. Ed invero, l’istituto della messa alla prova introduce una causa di proscioglimento per estinzione del reato su cui, tuttavia, prevalgono tutte le altre cause di proscioglimento, come si trae, da un lato, dalla lettera del primo comma dell’art. 464 quater C.p.P. che stabilisce che il giudice, nel corso dell’udienza, prima di provvedere deve verificare la sussistenza di cause di proscioglimento a norma dell’art. 129 C.p.P. Dall’altro dal disposto dell’art. 464 sexies C.p.P. che impone al giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, di acquisire le prove non rinviabili che possono condurre al proscioglimento dell’imputato.
La previsione della previa valutazione della sussistenza di causa di proscioglimento, accompagnata dal dovere di provvedere all’acquisizione di prove non rinviabili solo se dirette al proscioglimento, non risulta espressamente esclusa nell’ipotesi di sospensione per messa alla prova richiesta nel corso delle indagini preliminari. Innanzitutto, infatti, il primo comma dell’art. 464 C.p.P., che subordina la valutazione dell’istanza all’insussistenza delle cause di proscioglimento di cui all’art. 129, disciplina anche l’udienza fissata ex art. 127 in camera di consiglio, e quindi anche quella conseguente la richiesta proposta nel corso delle indagini preliminari. In secondo luogo, una lettura che limiti la possibilità di assunzione di una prova non rinviabile, che possa condurre al proscioglimento dell’imputato, alle sole ipotesi di istanze successive all’esercizio dell’azione penale nelle forme espressamente richiamate dall’art. 405 C.p.P., impedisce a colui che abbia formulato l’istanza in sede di indagini di ottenere lo stesso trattamento, così introducendo una diseguaglianza, collegata solo al momento in cui interviene la richiesta della stessa misura, la cui positiva prestazione comporta in entrambi i casi l’estinzione del reato, ma che in caso di revoca favorisce nell’acquisizione della prova solo colui che abbia formulato l’istanza ai sensi dell’art. 464 bis, comma 2, C.p.P., escludendo colui che l’abbia formulata ai sensi dell’art. 464 ter C.p.P. D’altro canto, se si ritiene che il disposto dell’art. 464 sexies C.p.P., si applichi in entrambi i casi, si deve anche osservare che la norma si riferisce al proscioglimento “dell’imputato“, equiparando, dunque, l’esercizio dell’azione penale di cui all’art. 405 C.p.P., con la formulazione dell’imputazione ex art. 464 ter.
Questa premessa sistematica consente di affermare che l’imputazione che il pubblico ministero è chiamato a formulare nel momento in cui presta il consenso, ai sensi dell’art. 464 ter, comma 3 C.p.P. ha la stessa natura di esercizio di azione penale di quella prevista dall’art. 405 C.p.P. e non è mera descrizione della fatto per l’individuazione della fattispecie di reato, necessaria alla prestazione del consenso.
Ciò posto, laddove il giudice, revochi l’istanza di messa alla prova formulata nel corso delle indagini preliminari, deve disporre, ai sensi dell’art. 464 octies, comma 4 C.p.P. che il procedimento riprenda il suo corso, con la conseguenza che quando la revoca divenga definitiva, il procedimento riprende dal momento in cui era rimasto sospeso. Il che significa che, quando l’azione penale sia stata esercitata con la formulazione dell’imputazione ex art. 464 ter C.p.P. il procedimento non può regredire ad una fase antecedente, con restituzione degli atti al pubblico ministero, che, formulando l’imputazione, ha già esercitato l’azione penale.
Un simile provvedimento costituisce, invero, un atto abnorme sotto il profilo funzionale che ne determina la stasi e l’impossibilità di prosecuzione (sulla definizione dell’atto abnorme basta ricordare Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, secondo cui “È affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite“).
Ne consegue che “L’imputazione formulata dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 464 ter, comma terzo, C.p.P. ha la stessa natura di esercizio dell’azione penale di quella previsa dall’art. 405 C.p.P.; pertanto laddove il giudice revochi l’ordinanza di messa alla prova ammessa nel corso delle indagini preliminari, deve disporre, ai sensi dell’art. 464-octies, comma quarto, C.p.P., che il procedimento riprenda dal momento in cui era rimasto sospeso, non potendo regredire ad una fase antecedente con restituzione degli atti al P.M. il quale ha già esercitato l’azione penale“. (Cass., Sez. 4, Sentenza n. 29093 del 11/04/2018, ripresa da Sez. 4, Sentenza n. 18817 del 12/03/2019).
Corte di Cassazione Sent. Sez. 4 n. 32981 Anno 2021