Riprese audiovisive nel processo
Ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca, il giudice con ordinanza, se le parti consentono, può autorizzare in tutto o in parte la ripresa fotografica, fonografica o audiovisiva ovvero la trasmissione radiofonica o televisiva del dibattimento, purché non ne derivi pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell’udienza o alla decisione.
L’autorizzazione può essere data anche senza il consenso delle parti quando sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento.
Anche quando autorizza la ripresa o la trasmissione a norma dei commi 1 e 2, il presidente vieta la ripresa delle immagini di parti, testimoni, periti, consulenti tecnici, interpreti e di ogni altro soggetto che deve essere presente, se i medesimi non vi consentono o la legge ne fa divieto.
Non possono in ogni caso essere autorizzate le riprese o le trasmissioni dei dibattimenti che si svolgono a porte chiuse a norma dell’articolo 472 commi 1, 2 e 4 del codice.
È pacifico, nel caso di specie, che le riprese televisive del processo penale nel quale le attrici, parti lese, avevano reso deposizioni testimoniali, erano state autorizzate dal giudice penale e che le stesse attrici avevano autorizzato la diffusione delle proprie deposizioni, a condizione che venisse tutelato il loro diritto all’anonimato e quindi non fossero trasmesse immagini che consentissero la loro identificazione, ai sensi dell’art. 147 disp. att. c.p.p..
Secondo la decisione del giudice di primo grado, nella specie, il rispetto del principio di essenzialità dell’informazione si traduceva, quindi, “nell’ottica ci un corretto bilanciamento tra il diritto all’informazione e quello alla dignità ed alla riservatezza dei soggetti coinvolti, nell’adozione di accorgimenti atti a non svelare l’identità personale dei soggetti…“; tale principio era stato di conseguenza violato, in quanto la trasmissione delle immagini del processo, per le modalità tecniche con le quali era avvenuta, consentiva in realtà l’identificazione delle attrici, quanto meno nella cerchia dei loro conoscenti. Pur non essendo stata trasmessa la parte del processo in cui venivano espressamente indicate le loro generalità, infatti, le riprese erano avvenute in campo corto, l’oscuramento dei volti non era stato completo (ma limitato alla sola parte superiore degli stessi) e non era stata operata alcuna alterazione delle voci; inoltre, in occasione di alcuni cambi di inquadratura era risultato possibile intravedere anche il naso e l’occhio di una di esse.
Non erano stati, in altri termini, adottati accorgimenti idonei ad impedire l’identificazione delle testimoni.
In sostanza, i giudici di appello non mettono in discussione l’assunto di diritto (già fatto proprio dal giudice- di primo grado) secondo il quale l’autorizzazione ed il consenso alle riprese del processo penale e lo stesso aspetto del principio di essenzialità dell’informazione dovevano ritenersi nella specie subordinati all’adozione di accorgimenti tecnici idonee ad impedire in concreto l’identificazione delle attrici, testimoni nel processo e vittime del reato.
Tale assunto, del resto (oltre ad essere sostanzialmente incontestato sin dal primo grado e ad essere stato, almeno in modo implicito, fatto proprio dalla corte di appello), risulta – il che assume carattere assorbente – del tutto conforme, in diritto, alla consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità in materia, non essendo mai stata autorizzata nè dal giudice penale nè dalle interessate, ai sensi dell’art. 147 disp. att. c.p.p., la diffusione delle proprie immagini con modalità tali da consentire la loro identificazione (sia pure nella cerchia ristretta dei loro conoscenti), e non potendo ritenersi comunque tale identificazione – come è evidente in alcun modo essenziale ai fini della completezza dell’informazione in ordine ai contenuti del processo e delle deposizioni in esso rese e, quindi, lecita anche senza il consenso delle stesse interessate (cfr., in proposito: Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 18006 del 09/07/2018; Sez. 1, Sentenza n. 15360 del 22/07/2015; Sez. 3, Sentenza n. 17408 del 12/10/2012; Sez. 3, Sentenza n. 10690 del 24/04/2008; Sez. 1, Sentenza n. 11864 del 25/06/2004; Sez. 3, Sentenza n. 5658 del 09/06/1998).
Corte di Cassazione, Sez. III Civile, ordinanza 4 aprile 2019, n. 9340