Antonio Ligabue: un viaggio nell’Arte Naif

Antonio Ligabue (Zurigo, 18 Dicembre 1899 – Gualtieri, 27 maggio 1965)

Più che considerato uno dei grandi artisti italiani del secolo, Antonio Ligabue fu sostanzialmente ed ampiamente definito un pittore “matto”.

Una sorta di “Van Gogh italiano”, anche in virtù della stupefacente similitudine con problemi psichiatrici che accomunava entrambi.

Fin dalla nascita, la sua vita fu costellata di solitudine, incomprensione e scarso amore familiare sia dalla madre naturale, Elisabetta Costa, operaia italiana emigrata in Svizzera, pertanto nello status di “ragazza madre” (forse il probabile padre fu un tale di nome Bonfiglio Laccabue, originario di Reggio Emilia).

Adottato all’età di 10 mesi dai coniugi Johannes Valentin Gobel ed Elise Hanselmann (non lo riconobbero mai legalmente), ebbe un drammatico rapporto con quest’ultima, che lo fece dapprima internare in un istituto psichiatrico (1913) e, successivamente, attraverso una denuncia, lo fece espellere dalla Svizzera (1919).

Portato a Gualtieri, paese originario del padre naturale Laccabue, scappò in Svizzera ma fù riportato nuovamente a Gualtieri dove ricevette asilo ed assistenza dall’Ospizio Comunale di mendicità Carri.

Dopo qualche mese (1920) iniziò a lavorare alla costruzione di una strada che univa il paese agli argini del Po’, vivendo comunque come un selvaggio ai margini della società, diviso tra boschi e casolari abbandonati.

E’ proprio in questa solitudine condita di assordanti silenzi che Antonio Ligabue inizia il suo percorso artistico attraverso la concezione che la vita è una lotta costante e senza sosta per la sopravvivenza, costellata di straordinaria ferocia attraverso le leggi naturali che la governano e che lasciano solo pochi attimi di distrazione.

Solo attraverso tale lettura si riescono a spiegare i tanti capolavori eseguiti che rappresentano lotte virulente a volte tra animali selvaggi, a volte coinvolgendo quelli domestici (cavalli, cani, colombi, ecc).

Logica attestazione dell’equilibrio della natura in cui vige sacra la regola che per sopravvivere devi lottare sempre. Sicuramente un messaggio autobiografico che l’artista ha voluto fermamente inviare a tutti i suoi ammiratori circa ferocia dell’Umanità.

La svolta avviene nel 1928 attraverso un incontro con l’artista Renato Marino Mazzacurati che intuendone le doti elevate di forza cromatica e genuina, gli insegnò l’uso dei colori ad olio, raffinandone la mano e perfezionandone lo stile ed il segno, valorizzando così appieno tutto il suo talento.

Gli anni intercorsi dal 1937 al 1948, li trascorse tra il manicomio di Reggio Emilia, come interprete per le truppe tedesche durante la guerra e, nuovamente in manicomio per aver colpito con una bottiglia un militare.

Unico intermezzo di serenità tra il 1941 e il 1943 quando lo scultore Andrea Mozzali si prese cura di lui facendolo dimettere dall’ospedale psichiatrico  ospitandolo nella sua casa a Guastalla (RE).

Dopo alcune esperienze con creta ed argilla, nel 1954 abbandonò la scultura per dedicarsi completamente ai suoi dipinti.

Gli anni d’ora si ebbero dal 1948 in poi, nei quali la critica e le testate giornalistiche iniziarono a dedicargli lo spazio che meritava.

Nel 1961 fu allestita a Roma presso la galleria “La Barcaccia” la sua prima personale segnando il definitivo successo che lo rese ricco e celebre in Europa.

Era appassionato di motociclette tanto da possederne circa 16 di cui andava fiero (Moto Guzzi). In quello stesso anno si procurò un grave incidente e nel 1962 ebbe un “ictus con emiparesi” dal quale non riuscì più a riprendersi proprio quando la città di Guastalla gli stava tributando una grande retrospettiva.

Ritornato all’Istituto di Mendicità Carri di Gualtieri, morirà il 27 maggio 1965,  durante l’apertura di una mostra antologica in suo onore a Reggio Emilia.

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