L’applicazione della pena su richiesta delle parti o “patteggiamento” è disciplinata dall’art. 444 C.p.P., secondo cui “L’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria“.
La norma prosegue indicando i reati che sono esclusi dall’applicazione della pena su richiesta delle parti, in particolare, “i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600 bis, 600 ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600 quater, secondo comma, 600 quater 1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600 quinquies, nonché 609 bis, 609 ter, 609 quater e 609 octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell’articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria“; mentre “nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater e 322 bis del codice penale, l’ammissibilità della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato“.
L’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti o “patteggiamento” ruota attorno a due aspetti fondamentali: l’accordo tra l’imputato e il P.M. e la ratifica del suddetto accordo da parte del giudice: “Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’articolo 129,il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché congrua la pena indicata, ne dispone con sentenza l’applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti” (art. 444, comma 2 C.p.P.).
Il processo diviene più snello in quanto viene eliminata la fase dibattimentale, rispondendo ad esigenze di economia processuale, mentre l’imputato a fronte di tale rinuncia ottiene uno sconto di pena fino a un terzo.
Ma il consenso dell’imputato può essere revocato dallo stesso?
Sul punto, occorre affermare che “In tema di patteggiamento, ciascuna parte è libera di revocare il consenso già prestato all’applicazione della pena fino a quando il giudice non ratifichi l’accordo. (In motivazione la Corte – in una fattispecie nella quale, dopo l’avvenuto perfezionamento dell’accordo, il P.M. aveva revocato il consenso riformulando l’imputazione, su cui era stato poi raggiunto un nuovo accordo tra le parti – ha ulteriormente precisato che è solo tale ratifica che rende l’accordo immodificabile, impedendo all’imputato di rimetterlo in discussione in quanto superato dall’avvenuto patteggiamento)“. (Cass., Sez. 3, n. 3580 del 27/01/2009).
Dalla lettura della stessa e della relativa motivazione si desume la assoluta peculiarità della vicenda: allora, infatti, il P.M., dopo il già avvenuto perfezionamento dell’accordo con l’imputato per l’applicazione di pena ex art. 444 C.p.P., aveva riformulato l’imputazione, peraltro in peius, … e, in conseguenza, erano stati modificati i termini dell’accordo originario. (Cass., Sez. 4 n. 26052/2020)
In ogni caso, la tesi della modificabilità del patto sino alla ratifica giudiziale (sostenuta, in effetti, nelle lontane decisioni di Cass., Sez. 5, n. 627 del 05/02/1999, e di Cass., Sez. 1, n. 2831 del 24/06/1991; oltre che, sia pure nella singolare situazione di cui si è detto, in quella di Cass., Sez. 3, n. 3580 del 27/01/2009) è ormai da tempo superata da costante e consolidato orientamento di legittimità, anche recentemente ribadito, secondo il quale “In tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, l’accordo tra l’imputato e il pubblico ministero costituisce un negozio giuridico processuale recettizio che, quando entrambe le parti abbiano manifestato il proprio consenso con le dichiarazioni congiunte di volontà, diviene irrevocabile e non può essere modificato per iniziativa unilaterale di una parte, determinando effetti non reversibili nel procedimento. (In applicazione del principio, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso inteso a far valere la contrarietà alla scelta del rito espressa dall’imputata nell’udienza celebrata dopo il perfezionamento dell’accordo)“. (Cass., Sez. 5, n. 12195 del 19/02/2019; Cass., Sez. 1, n. 48900 del 15/10/2015; Cass., Sez. 4, n. 38070 del 11/07/2012; Cass., Sez. 4, n. 38051 del 03/07/2012; Cass., Sez. 1, n. 1066 del 17/12/2008; Cass., Sez. 3, n. 39730 del 04/06/2009; Cass., Sez. 5, n. 7563 del 15/01/2004; Cass., Sez. 2, n. 115 del 09/01/1998; Cass., Sez. 6, n. 5521 del 15/03/1996). (cit. Cass., Sez. 4 n. 26052/2020).
Secondo la giurisprudenza di legittimità “In tema di patteggiamento, il ricorso per cassazione per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato ai sensi del novellato art. 448, comma 2-bis, C.p.P., a pena di inammissibilità, deve contenere la specifica indicazione degli atti o delle circostanze che hanno determinato il vizio” (Cass., Sez. 1, n. 15557 del 20/03/2018; Cass., Sez. 4, n. 54580 del 19/09/2018). (cit. Cass., Sez. 4 n. 26052/2020).