La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la sussistenza del reato di violenza sessuale ai sensi dell’art. 609bis C.p. anche l’assenza di qualsiasi contatto fisico con la persona offesa.
Nel caso di specie le condotte ascritte all’indagato consistono in conversazioni telefoniche nel corso delle quali, qualificatosi come medico ginecologico, riferiva alle donne chiamate di essere al corrente degli accertamenti medici da queste effettuati o in procinto di effettuare e, rappresentate situazioni di urgenza o di opportunità, le sollecitava a compiere su se stesse atti di autoerotismo giustificati da finalità mediche oppure a fotografare la loro zona genitale e trasmettere l’esito via e-mail.
Occorre valutare se l’assenza di qualsiasi contatto fisico con la persona offesa esclude che possano dirsi integrati gli estremi del reato contestato. In altri termini, la commissione di atti sessuali penalmente rilevanti richiederebbe l’esistenza di una qualche relazione fisica tra agente e vittima.
Tale impostazione ermeneutica ha formato oggetto di esame da parte della giurisprudenza di legittimità ed è stata ritenuta non rispondente al dato normativo. È sufficiente sul punto rinviare alla chiara motivazione della sentenza n. 11958/2011del 22/12/2010, nella quale si chiarisce che l’induzione della vittima a commettere atti sessuali su di sé da parte dell’agente, induzione che mira a soddisfare il desiderio sessuale dello stesso, integra gli estremi del reato previsto dall’art.609-bis C.p. Del resto, non costituisce affatto precedente difforme alla logica della sentenza citata quanto affermato dalla precedente sentenza n. 15464 del 12/02/2004, che esclude la sussistenza del reato nelle condotte di autoerotismo poste in essere dall’agente su se stesso in quanto non hanno comportato alcuna invasione della sfera sessuale della persona che vi assiste. Infatti, ciò che rileva ai nostri fini, al di là delle conclusioni cui è giunta l’ultima sentenza citata, è il principio sotteso alle due decisioni: in assenza di contatti fisici fra i due protagonisti del fatto, il reato di violenza sessuale risulta integrato qualora sia compromessa la libera determinazione sessuale della persona destinataria delle condotte dell’agente e ne risulti aggredita la personalità sul piano sessuale.
Infatti, se non vi è dubbio che integrano il delitto ex art. 609-bis C.p. le condotte invasive della sfera intima della vittima dettate da finalità di soddisfacimento delle spinte sessuali dell’agente, la giurisprudenza ha affermato che il delitto in parola, caratterizzato da dolo generico, è integrato sul piano soggettivo dalla semplice coscienza e volontà dell’azione tipica; a ciò consegue che il reato sussiste anche quando la condotta tipica e l’offesa al bene protetto siano poste in essere per finalità diverse, quali la volontà di umiliare la persona o di porre in essere una vendetta, senza che venga coinvolta la sfera sessuale dell’agente. Sul punto si rinvia alla chiara motivazione della sentenza n. 39710 del 21/09/2011 e, sotto diversa prospettiva, alla motivazione della precedente sentenza n. 21336 del 15/04/2010 con riferimento alla finalità di provocare timore nella persona offesa.
In altri termini, la fattispecie di reato in esame risulta integrata dalle intenzionali aggressioni alla sfera sessuale della vittima, e in tal modo ad una dimensione intima e sensibile della sua persona e della sua personalità, commesse con modalità in qualche modo violente, subdole o artificiose che privino la vittima stessa della reale libertà di determinarsi, e ciò anche nei casi in cui l’agente agisca per finalità diverse dalla soddisfazione della propria libido.
Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 3 maggio 2013, n. 19102.