Avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione

Avviso alla persona offesa Personaggio Aspettando Evelina CattermoleAvviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione

La Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza che si riporta in commento, è stata investita della questione “se la disposizione dell’art. 408 C.p.P., comma 3-bis, che stabilisce l’obbligo di dare avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione con riferimento ai delitti commessi con violenza alla persona, sia riferibile anche alla fattispecie di atti persecutori prevista dall’art. 612-bis C.p. (c.d. stalking)“.
Il quesito, che si inserisce nel quadro della attenzione verso il fenomeno della violenza contro le donne e domestica e dell’allargamento dei diritti della persona offesa nell’ordinamento interno e, prima ancora, in quello internazionale, merita risposta positiva per le ragioni di ordine sistematico di seguito illustrate.

Il reato di atti persecutori.

Giova premettere un breve inquadramento del reato di atti persecutori, introdotto nel nostro ordinamento dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 7 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori“), convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38.
Giustificata dall’esigenza di tutela della vittima da forme di aggressione particolarmente insidiose, la nuova figura criminosa ha colmato una rilevante lacuna nel nostro ordinamento, apprestando, attraverso una combinazione di strumenti penalistici, civilistici e amministrativistici, una efficace tutela della vittima contro il rischio della progressione di atti di violenza da parte del persecutore.
Il reato è stato collocato nel codice penale (art. 612-bis) tra i delitti contro la persona, nella sezione dedicata ai delitti contro la libertà morale, atteso che le condotte incriminate sono idonee a incidere sulla tranquillità psichica, sulla libera autodeterminazione e in definitiva, appunto, sulla libertà morale della persona. Con questa nuova figura incriminatrice il legislatore italiano ha inteso reagire contro il fenomeno, da tempo conosciuto in molti ordinamenti stranieri sotto il nome di stalking. Si tratta di un fenomeno criminoso articolato, avente come comune denominatore il carattere assillante e ripetitivo della condotta di minaccia o molestia, in grado di produrre sulla vittima l’insorgere di stati di ansia e di paura tali da stravolgere le sue abitudini di vita.
Fenomeno la cui pericolosità è emersa sempre più evidente, atteso che è risultato che la maggioranza di questi comportamenti vengono realizzati da partner o ex-partner (per la stragrande maggioranza di sesso maschile, non potendosi tuttavia escludere il contrario) e che l’occasione delle molestie reiterate è spesso prodromica a comportamenti di vera e propria, spesso grave, violenza fisica da parte del molestatore.
La nuova fattispecie criminosa non esaurisce la disciplina anti- stalking. Il legislatore del 2009 ha potenziato la tutela preventiva della potenziale vittima degli atti persecutori introducendo l’istituto dell’ammonimento (D.L. n. 11 del 2009, art. 8), arricchendo il catalogo delle misure cautelari personali con la nuova misura del “Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” (art. 9, che ha introdotto l’art. 282-ter C.p.P.), prolungando fino ad un anno (contro i precedenti sei mesi) la durata massima dell’ordine di protezione del giudice civile già introdotto nel 2001 (art. 10, che modifica l’art. 342-ter C.c.). Non sono mancati successivi interventi volti al rafforzamento della tutela repressiva e preventiva (dal D.L. 1 luglio 2013, n. 78, convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 94, al D.L. n. 93 del 2013, convertito dalla L. n. 199 del 2013), di cui appresso si dirà.

La tutela della vittima del reato.

Da tempo è in atto un fenomeno di emersione e di nuova considerazione della posizione della persona offesa negli strumenti internazionali generalmente indicata come “vittima“, all’interno del processo penale, fenomeno sollecitato, da un lato, dall’allarme sociale provocato dalle varie forme di criminalità violenta via via emergenti (terrorismo, tratta di essere umani, sfruttamento di minori, violenza contro le donne in cui spesso il reato si consuma in contesti dove preesistono legami tra la vittima e il suo aggressore), dall’altro, dagli strumenti internazionali esistenti in materia.
L’interesse per la tutela della vittima costituisce da epoca risalente tratto caratteristico dell’attività delle organizzazioni sovranazionali sia a carattere universale, come l’ONU, sia a carattere regionale, come il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea, e gli strumenti in tali sedi elaborati svolgono un importante ruolo di sollecitazione e cogenza nei confronti dei legislatori nazionali tenuti a darvi attuazione.
I testi normativi prodotti dall’Unione Europea in materia di tutela della vittima possono essere suddivisi in due categorie: da un lato quelli che si occupano della protezione della vittima in via generale e dall’altro lato quelli che riguardano la tutela delle vittime di specifici reati particolarmente lesivi dell’integrità fisica e morale delle persone e che colpiscono di frequente vittime vulnerabili.
Tra i primi assume un posto di assoluta rilevanza la Direttiva 2012/29 UE in materia di diritti, assistenza e protezione della vittima di reato, che ha sostituito la decisione-quadro 2001/220 GAI, costituente uno strumento di unificazione legislativa valido per tutte le vittime di reato, dotato dell’efficacia vincolante tipica di questo strumento normativo. Ad essa è stata data recente attuazione nell’ordinamento interno con il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212.
Tra i testi incentrati su specifiche forme di criminalità e correlativamente su particolari tipologie di vittime, assumono particolare rilievo la Convenzione di Lanzarote del Consiglio d’Europa del 25 ottobre 2007, sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, e la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa dell’11 maggio 2011 sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, entrambe incentrate sulla esigenza di garantire partecipazione, assistenza, informazione e protezione a particolari categorie di vittime.
Come è stato osservato, la Direttiva 2012/29/UE, con il suo pendant di provvedimenti-satellite (le Direttive sulla tratta di esseri umani, sulla violenza sessuale, sull’ordine di protezione penale, tra le altre) e di accordi internazionali (le Convenzioni di Lanzarote e Istanbul, in particolare), rappresenta un vero e proprio snodo per le politiche criminali, di matrice sostanziale e processuale, dei legislatori europei. Non tanto per le singole indicazioni da attuare a livello nazionale (diritti di informazione, assistenza linguistica, accesso alla giustizia, garanzie di protezione, e via discorrendo) quanto per la necessità, imposta dal testo europeo, di definire una chiara posizione sistemica all’offeso.
In tale contesto si è inserita l’attività del legislatore interno che, a fronte della emersione del fenomeno della violenza in ambito familiare e domestico e in presenza di una pluralità di atti internazionali di cui tenere conto, ha provveduto a modificare in larga parte la normativa sostanziale e specialmente processuale con interventi settoriali, spesso attuati con lo strumento del decreto- legge, anche reintervenendo con successivi adattamenti sugli stessi istituti: un vero e proprio “arcipelagonormativo nel quale non sempre è facile orientarsi. Di tale quadro di riferimento complesso e frammentario si deve tenere conto al fine di risolvere la questione di che trattasi, che richiede di essere inquadrata nell’ambito delle fonti normative interne e internazionali.

Il D.L. n. 93 del 2013 e l’avviso obbligatorio alla persona offesa.

L’istituto dell’avviso obbligatorio alla persona offesa per alcune categorie di reati è stato introdotto con il D.L. 14 agosto 2013, n. 93, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonchè in tema di protezione civile e di commissariamento delle province“, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 199. A norma del nuovo comma 3-bis dell’art. 408 è stabilito che “Per i delitti commessi con violenza alla persona, l’avviso della richiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del pubblico ministero, alla persona offesa e il termine di cui al comma 3 è elevato a venti giorni“.
Il provvedimento in esame, adottato nelle forme della decretazione d’urgenza, declina le ragioni che hanno portato alla sua emanazione nel “susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne” – tanto da essere presentato dai media come la legge contro il “femminicidio” – e nella conseguente necessità di misure volte, da un lato, ad inasprire il trattamento punitivo e, dall’altro, a introdurre misure di prevenzione nei confronti delle donne e di ogni forma di violenza domestica, così come imposto dalla Convenzione di Istanbul della quale costituisce attuazione.
Dal punto di vista sostanziale la novella si rivolge ai reati di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori e violenza sessuale, che costituiscono le fattispecie fondamentali cui è affidato nel nostro ordinamento il contrasto alla violenza di genere, inasprendo le pene edittali e configurando nuove circostanze aggravanti.
La L. n. 119 del 2013 ha disposto altresì profonde modifiche processuali a tutela della vittima riconducibili essenzialmente a tre filoni: quello informativo, quello delle misure cautelari e quello riferibile a modalità di assunzione delle dichiarazioni della persona offesa. Le novità di natura processuale sono ad ampio raggio, poichè attengono a misure pre-cautelari e cautelari, incidente probatorio, termine delle indagini preliminari, richiesta di archiviazione, avviso di conclusione delle indagini preliminari, esame testimoniale delle vittime vulnerabili, priorità di trattazione dei procedimenti, gratuito patrocinio. Il tratto che le accomuna è rappresentato dalla volontà di contrastare anche con strumenti processuali le più significative forme di violenza di genere assicurando protezione alla vittima specie attraverso il rinforzamento degli strumenti informativi.
Si è in particolare previsto che: a) al momento dell’acquisizione della notizia di reato le parti offese (di qualunque reato) siano informate dei diritti e delle facoltà loro attribuite per legge (art. 101 C.p.P., comma 1); b) in occasione della revoca o sostituzione delle misure cautelari personali applicate all’imputato, le persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona debbano essere immediatamente informate (art. 299 C.p.P., comma 2- bis); c) la richiesta di revoca o di sostituzione delle misure cautelari coercitive debba essere contestualmente notificata alle persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona (art. 299 C.p.P., commi 3 e 4-bis); d) l’avviso della richiesta di archiviazione debba essere notificato alle persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona (art. 408 C.p.P., comma 3-bis); e) l’avviso di conclusione delle indagini preliminari debba essere notificato alle persone offese del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, di cui all’art. 572 C.p., e di atti persecutori, di cui all’art. 612-bis C.p. (art. 415-bis C.p.P, comma 1). Si tratta di un intervento che ha inciso, sviluppandole, sulle stesse linee tracciate dal precedente D.L. n. 11 del 2009 sullo stalking, rafforzando gli strumenti sostanziali e specialmente processuali a favore delle vittime “deboli“, cioè di quegli individui contro cui si indirizza una specifica categoria di reati a sfondo sessuale o comunque realizzati nell’ambito di relazioni familiari o affettive.

L’emendamento relativo ai “delitti commessi con violenza alla persona“.

Ai fini della questione che ci occupa è utile ripercorrere brevemente l’iter parlamentare della legge di conversione del citato decreto-legge, atteso che solo con la legge di conversione è stato introdotto il riferimento ai “delitti commessi con violenza alla persona“.
Secondo il testo originario del provvedimento, la notifica degli avvisi della richiesta di archiviazione e della conclusione delle indagini era prevista solo per la persona offesa del delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 C.p.); parallelamente, le comunicazioni alle persone offese in tema di misure cautelari erano circoscritte alle misure dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis C.p.P.) e di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter C.p.P.), cioè a quelle misure che tipicamente trovano applicazione nei reati che, come quelli ex artt. 612 e 572 C.p., si sviluppano nell’ambito delle relazioni familiari ed affettive. In sede di esame in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, venne rilevata la portata troppo ristretta di tali previsioni, puntualizzandosi che:
Quanto agli obblighi di costante comunicazione a tutela della persona offesa dai reati di stalking e maltrattamenti in ambito familiare di cui all’art. 2, comma 1, l’intervento normativo appare forse eccessivamente limitato, poichè prevede l’introduzione di obblighi di comunicazione in relazione solo ad alcune misure cautelari e solo alle vicende procedimentali di alcuni reati. Non si ravvisa, di contro, nessun tentativo di un più ampio riconoscimento del diritto dell’offeso alla comunicazione dei dati procedimentali rilevanti per i suoi Interessi, in coerenza con le indicazioni della Direttiva 2012/29/UE recante “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato“. Al fine di ampliare i diritti della persona offesa, si è pertanto deciso di allargare, nell’art. 299 C.p.P., la platea delle misure da comunicare comprendendovi, oltre quelle di cui agli artt. 282-bis e 282-ter, anche quelle previste dagli artt. 283, 284, 285 e 286 e stabilendo tale obbligo in relazione ai procedimenti aventi ad oggetto “delitti commessi con violenza alla persona“. La stessa espressione è stata poi utilizzata anche alla lett. g), per l’avviso della richiesta di archiviazione di cui al nuovo comma 3-bis dell’art. 408, oggetto di esame.
Da tale percorso risulta chiara l’intenzione del legislatore di utilizzare l’espressione “delitti commessi con violenza alla persona” per ampliare il campo di applicazione del precedente testo, così come formulato nel decreto legge, al dichiarato scopo di introdurre, anche con riferimento agli obblighi imposti dalla direttiva UE 29/2012, “i primi interventi strutturali che possano garantire maggiormente le vittime circa l’informazione del complesso dei propri diritti fin dal primo contatto con l’autorità procedente e di venire a conoscenza delle scelte operate circa il non esercizio dell’azione penale e quando l’indagato viene scarcerato o comunque nei casi in cui vi sia una modifica delle misure cautelari o coercitive da cui comunque possa derivare un potenziale pericolo per la persona offesa medesima“.
A tale fine il legislatore della conversione ha introdotto, in più occasioni, l’espressione “violenza alle persone“.
Questione centrale, allora, è chiarire quali procedimenti siano da includere tra quelli commessi “con violenza alla persona“, per i quali scattano gli obblighi informativi, dal momento che l’espressione utilizzata dal legislatore, in realtà, non Individua con immediatezza e certezza una specifica categoria di delitti e solleva dubbi sulla possibilità di includervi fattispecie che non presentano tra gli elementi costituivi del reato la violenza fisica.

La nozione di violenza secondo la Convenzione di Istanbul e secondo la Direttiva 2012/29 UE. 

Con L. 27 giugno 2013, n. 77, il Parlamento ha autorizzato la ratifica della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa dell’11 maggio 2011 sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Tale Convenzione, entrata in vigore il 1 agosto 2014, dopo aver raggiunto il numero minimo di Paesi firmatari, è vincolante per il nostro Paese e alle prescrizioni in esso contenute si è espressamente ispirato l’intervento legislativo del 2013 che ha introdotto il comma 3-bis dell’art. 408 C.p.P..
Di particolare interesse sono le definizioni contenute nell’art. 3 della Convenzione secondo cui: “a) con l’espressione violenza nei confronti delle donne si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; b) l’espressione violenza domestica designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; c) con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; d) l’espressione violenza contro le donne basata sul genere designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato; e) per vittima si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti di cui ai precedenti commi a e b“.
Sono così descritte tre diverse tipologie: violenza nei confronti delle donne, violenza domestica e violenza di genere, accomunate dalla completa parificazione tra violenza fisica e psicologica all’interno del più generale concetto di violenza, da cui, conseguentemente, discende una nozione di vittima riferita a qualsiasi persona fisica che subisce tali forme di violenza.
E’ altresì opportuno sottolineare che gli artt. 33 e 34 della Convenzione prevedono la necessaria penalizzazione da parte degli Stati firmatari delle condotte di violenza psicologica e di atti persecutori (stalking); e che nell’ambito delle misure di tutela, sul presupposto che l’accesso all’informazione sia la condizione fondamentale per una concreta ed effettiva protezione, all’art. 56, lett. b) e c), si prevedono a favore della vittima alcuni diritti partecipativi nel processo penale, quali il diritto ad essere informata circa l’esito della denuncia e dell’andamento delle indagini, l’eventuale evasione o rimessione in libertà dell’autore del reato.
All’art. 2, comma 1, della legge di ratifica, contenente l’ordine di esecuzione, è stabilito che la ratifica deve intendersi “nei limiti dei principi costituzionali, anche per quanto attiene alle definizioni contenute nella Convenzione“. Come si legge nella relativa Relazione illustrativa, tale dichiarazione interpretativa, conforme a quella resa al momento della firma della Convenzione, “si è resa necessaria in quanto la Convenzione, nel preambolo e negli articoli, si richiama al “genere” di cui offre una definizione ampia ed incerta e che presenta profili di criticità con il nostro impianto costituzionale.
A prescindere dai delicati problemi collegati alla identità di genere, è comunque importante sottolineare che a partire dalla ratifica della Convenzione di Lanzarote si è preso definitivamente atto nel nostro ordinamento della necessità di un contrasto specifico al fenomeno della violenza sulle donne. Con riferimento alla normativa sostanziale, per la realizzazione di tale finalità non sono state introdotte specifiche fattispecie di reato, essendosi ritenute sufficienti quelle esistenti di maltrattamenti, violenza, nelle sue varie forme, specie sessuali, e dei più recenti atti persecutori cui il nostro diritto affida tale compito, fattispecie che sono state via via aggravate con la previsione di aumenti di pena e specifiche circostanze. Ciò ha consentito di dare una risposta unitaria nei confronti di tutti gli autori di reato e di tutte le vittime, senza distinzione in ragione del sesso, come imposto dall’art. 3 Cost., tenuto presente che la violenza di genere è suscettibile di colpire anche gli uomini nei confronti dei quali, ove assumano la posizione di vittima, devono valere gli stessi principi e le stesse norme che più sovente operano a protezione delle donne.
Con una diversa, più ampia, prospettiva la Direttiva 2012/29/UE, cui è stata data attuazione con il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, entrato in vigore il 20 gennaio 2016, detta norme minime in materia di diritti all’assistenza, all’informazione, interpretazione e traduzione nonchè protezione nei confronti di tutte le vittime di reato, senza distinzione collegata al tipo di criminalità e alla qualità della vittima.
In quanto norme minime, gli Stati possono ampliare i diritti contemplati dalla direttiva al fine di garantire una sfera di protezione più elevata, come è avvenuto nel caso in esame atteso che l’obbligo previsto dall’art. 408 c.p.p., comma 3-bis, garantisce, a fronte del semplice diritto a ricevere informazioni sul proprio caso, di cui all’art. 6 della direttiva, una tutela rafforzata delle vittime di alcuni reati.
Gli artt. 22 e 23 della direttiva riprendono il tema della tutela individualizzata, segnalando la necessità di strumenti particolari, per lo più collegati alle modalità di audizione, destinati a soddisfare esigenze specifiche derivanti dal tipo di reato subito e dalle caratteristiche personali delle c.d. vittime vulnerabili, indicando tra le situazioni che devono essere oggetto di considerazione le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, della tratta di essere umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull’odio e le vittime con disabilità. Per dare attuazione a tale disposizione è stato inserito nel codice di rito l’art. 90-quater, che definisce la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa e sono stati in più punti modificate le varie disposizioni relative alla assunzione della testimonianza della persona offesa.
Anche la direttiva in esame fornisce la nozione di violenza di genere, definendola come “la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere. Può provocare un danno fisico, sessuale o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l’aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i c.d. “reati d’onore“. Le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno di protezioni speciali a motivo dell’elevato rischio di vittimizzazione secondaria e intimidazione e di ritorsioni connesso a tale violenza”.
La violenza nelle relazioni strette viene a sua volta definita come “quella commessa da una persona che è l’attuale o l’ex partner della vittima ovvero da un altro membro della sua famiglia, a prescindere se l’autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima. Questo tipo di violenza potrebbe includere la violenza fisica, sessuale, psicologica o economica e provocare un danno fisico mentale o emotivo, o perdite economiche“.
Si tratta di definizioni che non compaiono nei tradizionali testi normativi di produzione interna, ma che tuttavia, per il tramite del diritto internazionale, sono entrate a far parte dell’ordinamento e influiscono sulla applicazione del diritto. Le norme convenzionali recepite attraverso legge di ratifica sono infatti sottoposte, anche alla luce del comma 1 dell’art. 117 Cost., all’obbligo di interpretazione conforme che impone, ove la norma interna si presti a diverse interpretazioni o abbia margini di incertezza, di scegliere quella che consenta il rispetto degli obblighi internazionali.
L’obbligo di interpretazione conforme è ancora più pregnante riguardo alle norme elaborate nell’Unione Europea, atteso che il principio del primato del diritto comunitario impone al giudice nazionale l’obbligo di applicazione integrale per dare al singolo la tutela che quel diritto gli attribuisce, disapplicando di conseguenza la norma interna confliggente, sia anteriore che successiva a quella comunitaria. Ove sorgano questioni di conflitto con una norma interna, il giudice deve disapplicare la norma interna, mentre se vi sono dubbi sull’interpretazione della norma comunitaria che non può risolvere interpretando tale norma, mai disapplicandola, può sollevare la questione pregiudiziale sull’interpretazione della stessa davanti alla Corte di Giustizia a norma dell’art. 267 TFUE; rinvio pregiudiziale interpretativo che è obbligatorio per i giudici nazionali di ultima Istanza.
E’ da menzionare, infine, la Direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, che ha indicato quali “violenze gravi alla persona” la tortura, l’uso forzato di droghe, lo stupro e altre forme di violenza psicologica, fisica o sessuale. Tale disposizione è stata integralmente recepita nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 24, art. 1, recante, appunto, “Attuazione della direttiva 2011/36UE relativa alla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI“.
Ed ancora, in merito alle politiche di contrasto nei confronti della violenza, viene in rilievo la Direttiva 2011/99/UE, volta ad istituire l’Ordine di protezione europeo (OPE), attuata con D.Lgs. 11 febbraio 2015, n. 9.
L’OPE è una decisione con la quale l’autorità di un Paese dell’Unione dispone che gli effetti di una misura di protezione, disposta a tutela di una persona vittima di reato, si estendano al territorio di un altro Paese membro nel quale la persona protetta risieda o soggiorni o dichiari di voler risiedere o soggiornare (art. 1 e art. 2, n. 1, Direttiva 2011/99/UE e D.Lgs. n. 9 del 2015, art. 2, comma 1, lett. c)). Si tratta di un importante strumento di cooperazione giudiziaria finalizzato a rafforzare la protezione di quelle vittime che vogliano esercitare il loro diritto di cittadini dell’Unione di circolare e risiedere liberamente nel territorio degli Stati membri (Considerando n. 6 Dir. 2011/99/UE e D.Lgs. n. 9 del 2015, art. 1). Il decreto legislativo n. 9 del 2015, agli artt. 5 e 9, circoscrive il riconoscimento dell’OPE alle misure cautelari dell’allontanamento della casa familiare (art. 282-bis C.p.P.) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter C.p.P.), stabilendo altresì (art. 4 che inserisce all’interno dell’art. 282-quater C.p.P. un nuovo comma 1-bis) l’obbligo, per l’autorità giudiziaria procedente, di informare la persona offesa circa la facoltà di richiedere l’emissione di un ordine di protezione europeo.
Per quanto di interesse ai fini della presente trattazione, è importante sottolineare che i destinatari delle misure di protezione sono le vittime, anche potenziali, di reati che mettano in pericolo la vita, l’integrità fisica o psichica, la libertà personale, la sicurezza o l’integrità sessuale del soggetto da proteggere e che una posizione di particolare rilievo è attribuita alle vittime della violenza di genere o nelle relazioni strette, che si esprime con violenze fisiche, molestie, aggressioni sessuali, stalking, intimidazioni o altre forme indirette di coercizione.
In definitiva, dalla lettura delle fonti sovranazionali sopracitate emerge come l’espressione “violenza alla persona” sia sempre intesa in senso ampio, comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche morali o psicologiche e che lo stalking rientri tra le ipotesi “significative” di violenza di genere che richiedono particolari forme di protezione a favore delle vittime. Si tratta di indicazioni che costituiscono un fondamentale riferimento per addivenire ad una interpretazione delle norme interne conforme al diritto europeo.

Conclusioni.

La soluzione positiva al quesito inizialmente posto emerge chiaramente da quanto si è detto.
L’obbligo di avviso obbligatorio alla persona offesa dai reati commessi con violenza alla persona, di cui all’art. 408 C.p.P., comma 3-bis, è stato introdotto al fine di ampliare i diritti di partecipazione della vittima al procedimento penale; il testo normativo in cui è contenuto si prefigge lo scopo di dare specifica protezione alle vittime della violenza di genere, specie ove si estrinsechi contro le donne o nell’ambito della violenza domestica; il reato di atti persecutori, al pari di quello dei maltrattamenti in famiglia, rappresenta, al di là della sua riconducibilità ai reati commessi con violenza fisica, una delle fattispecie cui nel nostro ordinamento è affidato il compito di reprimere tali forme di criminalità e di proteggere la persona che la subisce; la storia dell’emendamento con cui è stata introdotta la nozione di “delitti commessi con violenza alla persona” dimostra la volontà del legislatore di ampliare il campo della tutela oltre le singole fattispecie criminose originariamente indicate; la nozione di violenza adottata in ambito internazionale e comunitario è più ampia di quella positivamente disciplinata dal nostro codice penale e sicuramente comprensiva di ogni forma di violenza di genere, contro le donne e nell’ambito delle relazioni affettive, sia o meno attuata con violenza fisica o solo morale, tale da cagionare cioè una sofferenza anche solo psicologica alla vittima del reato.
Il reato di atti persecutori, al pari di quello di maltrattamenti, rientra a pieno titolo in tale categoria.
Può pertanto enunciarsi il seguente principio di diritto: “La disposizione dell’art.408 C.p.P., comma 3-bis, che stabilisce l’obbligo di dare avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione con riferimento ai delitti commessi con violenza alla persona, è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 C.p., perchè l’espressione violenza alla persona deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario“.

Cass., Sez. U., 29 gennaio 2016, n. 10959

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