La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che, nell’interesse superiore del minore, va assicurato il rispetto del principio del diritto alla bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione (Cass., n. 28723/20; n. 9764/19; n. 18817/15; n. 11412/14).
Tale orientamento trova riscontro nella giurisprudenza della Corte Edu, che, chiamata a pronunciarsi sul rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 CEDU, pur riconoscendo all’autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, ha precisato che è comunque necessario un rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari“, ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori (Corte EDU, 4 maggio 2017, Improta c/Italia; Corte EDU, 23 marzo 2017, Endrizzi c/Italia; Corte EDU, 23 febbraio 2017, D’alconzo c/Italia; Corte EDU, 9 febbraio 2017, Solarino c/Italia; Corte EDU, 15 settembre 2016, Giorgioni c/Italia; Corte EDU, 23 giugno 2016, Strumia c/Italia; Corte EDU, 28 aprile 2016, Cincimino c. Italia).
La Corte EDU, di norma, e condivisibilmente, invita le autorità nazionali ad adottare tutte le misure atte ad assicurare il mantenimento dei legami tra il genitore e i figli, affermando che “per un genitore e suo figlio, stare insieme costituisce un elemento fondamentale della vita familiare” (Kutzner c. Germania, n. 46544/99, CEDU 2002) e che “le misure interne che lo impediscono costituiscono una ingerenza nel diritto protetto dall’art. 8 della Convenzione” (K. E T. c. Finlandia, n. 25702/94, CEDU 2001).
I giudici di Strasburgo, inoltre, hanno precisato che, in un quadro di osservanza della frequentazione tra genitore e figlio, gli obblighi positivi da adottarsi dalle autorità degli Stati nazionali, per garantire effettività della vita privata o familiare nei termini di cui all’art. 8 della Convenzione EDU, non si limitano al controllo che il bambino possa incontrare il proprio genitore o avere contatti con lui, ma includono l’insieme delle misure preparatorie che, non automatiche e stereotipate, permettono di raggiungere questo risultato, nella preliminare esigenza che le misure deputate a ravvicinare il genitore al figlio rispondano a rapida attuazione, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui (Corte EDU, 29 gennaio 2013, Lombardo c. Italia).
Al riguardo, occorre evidenziare che il diritto alla bigenitorialità disciplinato dalle norme codicistiche è, anzitutto, un diritto del minore prima ancora dei genitori, nel senso che esso deve essere necessariamente declinato attraverso criteri e modalità concrete che siano dirette a realizzare in primis il miglior interesse del minore: il diritto del singolo genitore a realizzare e consolidare relazioni e rapporti continuativi e significativi con il figlio minore presuppone il suo perseguimento nel miglior interesse di quest’ultimo, e assume carattere recessivo se ciò non sia garantito nella fattispecie concreta. Tale principio è stato già espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel ritenere, infatti, che il regime legale dell’affidamento condiviso, tutto orientato alla tutela dell’interesse morale e materiale della prole, deve tendenzialmente comportare, in mancanza di gravi ragioni ostative, una frequentazione dei genitori paritaria con il figlio, e che tuttavia nell’interesse di quest’ultimo il giudice può individuare un assetto che si discosti da questo principio tendenziale, al fine di assicurare al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena (Cass., n. 19323/20; n. 4790/22).
Il principio del superiore interesse del minore, disciplinato dall’art. 337 ter c.c., e art. 8 Cedu, è altresì un principio cardine della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia con L. n. 176 del 1991. Nello spirito di tale Convenzione, il superiore interesse del minore è declinato in tre distinte accezioni tra loro strettamente collegate.
Anzitutto, esso esprime un diritto sostanziale, cioè il diritto del minorenne a che il proprio superiore interesse sia valutato e considerato preminente quando si prendono in considerazione interessi diversi, al fine di raggiungere una decisione sulla problematica in questione, e la garanzia che tale diritto sarà attuato ogni qualvolta sia necessaria una decisione riguardante un minorenne, un gruppo di minorenni identificati o non identificati, o minorenni in generale.
Inoltre, il miglior interesse del minore configura un principio giuridico interpretativo fondamentale: se una disposizione di legge è aperta a più di un’interpretazione, si dovrebbe scegliere l’interpretazione che corrisponde nel modo più efficace al superiore interesse del minore. Ciò implica anche una regola procedurale; ogni qualvolta sia necessario adottare una decisione che interesserà un minorenne specifico, un gruppo di minorenni identificati o di minorenni in generale, il processo decisionale dovrà includere una valutazione del possibile impatto (positivo o negativo) della decisione sul minorenne o sui minorenni in questione.
Tale complessa e stratificata caratterizzazione del diritto del minore impone, dunque, nell’applicazione delle singole norme, un’interpretazione che valorizzi in ogni caso il miglior interesse del minore, con prevalenza su altri diritti la cui attuazione possa, seppur parzialmente e indirettamente, comprimerlo; l’interprete è chiamato, dunque, ad una delicata interpretazione ermeneutica di bilanciamento la cui specialità consiste nel predicare in ogni caso la preminenza del diritto del minore e la recessività dei diritti che con esso possano collidere.
Invero, non può essere sottaciuto, come evidenzia anche parte della dottrina, che ogni decisione che si ponga il problema se privilegiare l’interesse del minore in prospettiva futura, al prezzo di produrgli una sofferenza immediata, deve compiere un difficilissimo bilanciamento: la scelta della prospettiva futura può essere ragionevolmente privilegiata solo se è altamente probabile che dia esito positivo nel lungo periodo e al tempo stesso dalla scelta opposta deriverebbe un danno elevato; è per di più è necessario che la sofferenza nel breve periodo appaia superabile senza lasciare strascichi troppo traumatici.
Al riguardo va richiamata la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena (Cass., n. 6919/2016; Cass., n. 7041/2013).
Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022