Con il termine inglese “Catcalling” si fa riferimento ad una serie di molestie (verbali o fisiche) che avvengono solitamente in luoghi pubblici come vie, strade o anche mezzi di traporto pubblico.
Tali condotte hanno un raggio di azione molto ampio e possono andare dal semplice approccio o corteggiamento con modesta portata offensiva, che man mano può diventare sempre più insistente, fino alla ricerca o tentativi di contatto fisico con la vittima; o, ancora il Catcalling si manifesta in commenti verbali tali da integrare veri e propri insulti aventi ad oggetto il sesso, la religione, l’etnia, la classe sociale o eventuali disabilità. Sovente la molestia viene realizzata con petulanza, in quanto la condotta viene ripetuta, con identiche modalità, in un breve arco temporale (ovvero il comportamento è connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone). In casi più gravi si arriva a molestie anche in orario notturno solitamente con numerose telefonate, anche mute, che possono cagionare disturbo e arrecare un profondo stato d’ansia alla vittima.
Sul punto giova, in proposito, richiamare la giurisprudenza della Corte di legittimità che ha già ritenuto che il corteggiamento insistente di una donna, a lei non gradito, che si estrinsechi in ripetuti pedinamenti e continue telefonate, realizza non solo l’elemento materiale del reato di cui all’art. 660 C.p., ossia la “molestia“, ma anche la sua componente psicologica in quanto la relativa condotta è rivelatrice di “petulanza” oltre che di “biasimevole motivo” (Cass., Sez. 1, n. 6905 del 28/01/1992; c.f.r., anche, sulla necessaria distinzione tra elemento psicologico del reato e motivi inducenti alla condotta molesta, tra le molte: Cass., Sez. 1, n. 11855 del 06/10/1995; Cass., Sez. 1, n. 33267 del 11/06/2013). (Cass. Sez. 1 n. 49571/2016).
Giova in premessa rammentare che, come la giurisprudenza di legittimità insegna, con la disposizione prevista dall’art. 660 C.p. il legislatore, attraverso la previsione di un fatto recante molestia alla quiete di un privato, ha inteso tutelare la tranquillità pubblica per l’incidenza che il suo turbamento ha sull’ordine pubblico, data l’astratta possibilità di reazione. L’interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa e la tutela penale è accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate o disturbate, dal momento che ciò che viene in rilievo è la tutela della tranquillità pubblica per i potenziali riflessi sull’ordine pubblico di quei comportamenti idonei a suscitare nel destinatario reazioni violente o moti di ribellione.
L’elemento materiale della “molestia” è costituito dall’interferenza non accetta che altera dolorosamente, fastidiosamente o importunamente, in modo immediato o mediato, lo stato psichico di una persona (Cass., Sez. 1, n. 19718 del 24/03/2005) e l’atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma dev’essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente.
La Corte di legittimità ha, da tempo, anche affermato che il reato di molestia o disturbo alle persone non ha natura necessariamente abituale e non pretende sempre e comunque una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicché può essere realizzato anche con una sola azione purché particolarmente sintomatica la stessa dei motivi specifici che l’hanno ispirata. Con riferimento all’intento della condotta costituito da biasimevole motivo è sufficiente, infatti, anche il compimento di un unico gesto, come nel caso di una sola telefonata effettuata con modalità rivelatrici dell’intrusione nella sfera privata del destinatario (Cass., Sez. 1, n. 3758 del 07/11/2013; Cass., Sez. 6, n. 43439 del 23/11/2010; Cass., Sez. 1, n. 11514 del 16/03/2010).
Del resto, si è chiarito che “Il reato di molestie o disturbo alle persone, pur non essendo necessariamente abituale, in quanto suscettibile di perfezionarsi anche con il compimento di una sola azione da cui derivino gli effetti indicati dall’art. 660 C.p., può in concreto assumere la forma dell’abitualità, incompatibile con la continuazione, allorché sia proprio la reiterazione delle condotte a creare molestia o disturbo, con la conseguenza che, in tal caso, ai fini della prescrizione, il termine comincia a decorrere dal compimento dell’ultimo atto antigiuridico” (Cass., Sez. 1, n. 19631 del 12/06/2018).