Circolazione della prova in processi diversi
La circolazione della prova può avvenire in processi diversi, civili, penali e viceversa. Le prove e gli elementi di prova raccolti in un giudizio penale sono utilizzabili dal giudice civile per la formazione del proprio convincimento. Gli stessi possono essere utilizzati secondo il grado di efficacia loro riconosciuto dal codice di rito ogniqualvolta si tratti di prove previste in entrambi i riti. Qualora si sia in presenza di prove che il processo civile non conosce o la cui ammissibilità è diversamente disciplinata, sono utilizzabili dal giudice quali argomenti di prova.
La Corte di legittimità, con una recente pronuncia (Cass., n. 2168 del 2013), ha già avuto modo di affermare che il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’art. 444 c.p.p., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale.
La medesima pronuncia, ha altresì, affermato, che in sede civile può legittimamente attribuirsi piena efficacia probatoria alla sentenza di patteggiamento, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità, dovendo invece il giudice civile – nel caso in cui non intenda attribuire tale efficacia alla sentenza di patteggiamento – spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione.
In precedenza (Cass., n. 26250 del 2011), si era già affermato che nel giudizio di opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione conseguente a sanzione amministrativa, poichè la sentenza penale di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., è solo equiparata ad una pronuncia di condanna e, a norma dell’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, non ha efficacia in sede civile o amministrativa, le risultanze del procedimento penale non sono vincolanti, ma possono essere liberamente apprezzate dal giudice civile ai fini degli accertamenti di sua competenza.
I principi affermati con la sentenza n. 2168 del 2013 trovano applicazione anche con riguardo alla consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari nell’ambito di un procedimento penale concluso con la sentenza di patteggiamento.
Ciò, tenuto conto, in particolare, che, ai sensi degli artt. 50, 358 e 405 c.p.p., il pubblico ministero compie ogni attività necessaria per le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, e svolge, altresì, accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.
Peraltro, con riguardo all’efficacia di tate atto nel processo civile, la Corte si è già pronunciata con la sentenza n. Cass., n. 15714 del 2010 (fattispecie relativa a consulenza tecnica d’ufficio esperita nel quadro delle indagini preliminari relative al procedimento penale incardinatosi a seguito della querela, con riguardo ad incidente stradale) affermando che il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento anche gli elementi probatori raccolti in un giudizio penale, ed in particolare le risultanze della relazione di una consulenza tecnica esperita nell’ambito delle indagini preliminari, soprattutto quando la relazione abbia ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi (sull’utilizzabilità di consulenza contabile espletata su incarico del gip, in sede di incidente probatorio si veda Cass., n. 28855 del 2008, che fa applicazione del principio secondo cui è consentito al giudice – alla stregua dell’orientamento dominante in dottrina e consolidato nella giurisprudenza di legittimità – porre a fondamento della sua decisione anche prove acquisite in altro giudizio svoltosi tra le stesse parti o tra soggetti diversi, stante il principio del libero convincimento desumibile dall’art. 116 c.p.c., per il quale il giudice civile può porre a fondamento delle sue decisioni anche elementi di prova emersi in altro giudizio tra le stesse parti o anche tra parti diverse, come nel caso delle consulenze tecniche, atteso che se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo, le parti di quest’ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e, dunque, svolgere considerazioni tali da spingere il giudice a tenerne conto nella decisione sulla valenza probatoria del materiale acquisito. Si cfr., anche Cass., n. 9843 del 2014 che afferma che il giudice del merito può legittimamente tenere conto, ai fini della decisione, delle prove acquisite in un altro processo a condizione che la relativa documentazione venga ritualmente acquisita al giudizio al fine di farne oggetto di valutazione critica delle parti e stimolare la valutazione giudiziale su di esse).
In precedenza, con la sentenza della Corte di Cassazione n. 16069 del 2001, si affermava che secondo il costante indirizzo interpretativo di legittimità (ex plurimis: Cass., n. 12422 del 2000, n. 8585 del 1999, n. 10972 del 1994) il giudice di merito, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, oltre che utilizzare prove raccolte in altro giudizio tra le stesse o altre parti, può anche avvalersi delle risultanze derivanti da atti di indagini preliminari svolte in sede penale, le quali debbono, tuttavia, considerarsi quali semplici indizi, idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio e la cui concreta efficacia sintomatica dei singoli fatti noti deve essere valutata – in conformità alla regola in tema di prova per presunzioni – non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva in base ad un apprezzamento, che, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, non è sindacabile in sede di legittimità. Di conseguenza, anche una consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero in un procedimento penale, una volta che essa sia stata ritualmente prodotta dalla parte in un giudizio civile, può essere liberamente valutata come elemento indiziario idoneo alla dimostrazione di determinati fatti, ancorchè la valutazione che se ne deve fare non può non tener conto che essa si è formata, eventualmente, senza il contraddittorio delle parti del giudizio civile e che non risulta sottoposta al vaglio del giudice del dibattimento.
Corte di Cassazione, sez. lav., 22 ottobre 2014, n. 22384