I comportamenti iperprotettivi di un genitore verso il figlio può configurare il reato di maltrattamenti in famiglia.
La giurisprudenza di legittimità ha affermato che integra il delitto di maltrattamenti in famiglia il genitore che tenga nei confronti del figlio minore comportamenti di carattere iperprotettivo, tali da incidere sullo sviluppo psicofisico dello stesso, a prescindere dal fatto che il minore abbia o meno percepito tali comportamenti come un maltrattamento o vi abbia acconsentito (Cass., Sez. 6, n. 36503 del 23/09/2011).
Va, tuttavia, considerato che nella fattispecie esaminata dalla Corte la madre, in concorso con il nonno, aveva posto in essere una serie di condotte consistite in atteggiamenti iperprotettivi, qualificati in termini di “eccesso di accudienza” (con l’imposizione di atti riservati all’età infantile e l’esclusione del minore da attività didattiche inerenti la motricità) e in deprivazioni sociali (in quanto gli erano stati impediti i rapporti con i coetanei) e psicologiche (attuate attraverso la rimozione della figura paterna) che sono state complessivamente valutate come idonee a ritardare gravemente sia lo sviluppo psicologico relazionale (con i coetanei e la figura paterna), sia l’acquisizione di abilità materiali e fisiche, anche elementari (come la corretta deambulazione).
Nel caso di specie le condotte contestate all’imputato, delineate come comportamenti iperprotettivi di un genitore verso il figlio minore (in particolare, violazioni relative all’esercizio del diritto di visita, registrazioni delle conversazioni e la sottoposizione a “controvisite mediche“), non sono riconducibili al paradigma dell’art. 572 c.p. per il seguente ordine di ragioni.
Va, innanzitutto ribadito che nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari (cfr. Cass., Sez. 6, n. 37019 del 27/05/2003). Secondo la costante lezione ermeneutica della Corte di legittimità, infatti, il reato è integrato dalla condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un’altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante (Cass., Sez. 6, n. 4935 del 23/1/2019; Sez. 6, n. 3570 del 01/02/1999; Sez. 6, n. 3965 del 17/10/1994). Tali condotte, pur valutate unitamente agli ulteriori comportamenti (le registrazioni delle conversazioni e la sottoposizione a “controvisite mediche”), sebbene rilevanti ai fini della valutazione relativa al corretto esercizio della responsabilità genitoriale ed alle correlate determinazioni riservate al giudice civile, come ricostruite dall’ordinanza impugnata, non appaiono superare la soglia minima di offensività, rappresentata dall’inflizione abituale di sofferenze fisiche o psicologiche idonee ad incidere sullo sviluppo del minore ed a lederne l’integrità, che, anche a prescindere dalla soglia di sensibilità della vittima (cfr. in tal senso Cass., Sez. 6, n. 36503 del 23/09/2011), consenta di qualificarle come maltrattamenti.
Corte di Cassazione, Sez. VI penale, 15 settembre 2022, n. 34280