La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente il consenso putativo della vittima per avere soggiaciuto alle richieste di rapporti sessuali avanzate dal marito, nell’ambito del rapporto di coniugio.
Tale assecondamento si inserisce, nel caso di specie, in un contesto di continue vessazioni e “torture psicologiche” cui l’uomo sottoponeva la donna.
E’, quindi, nel giusto la Corte quando ricorda che la violenza idonea ad integrare il delitto di violenza sessuale è anche quella che induce la vittima in uno stato di soggezione, disagio o vergogna sì che ella si determina ad “assecondare” le richiesta del proprio abusatore per evitare danni maggiori, a sé stessa o ai figli. Si tratta, in altri termini, di condotta necessitata che, anzi, più che mai evidenzia la chiara assenza di consenso da parte della donna quando, «ormai sfinita e stanca», si era decisa ad accettare le iniziative sessuali dei marito.
Secondo l’orientamento costante delle giurisprudenza di legittimità che, anche di recente, ha avuto modo di precisare (Cass., Sez. III, 24.1.13, R., n. 14085) come l’idoneìtà della violenza o della minaccia a coartare la vittima di abusi sessuali non va esaminata secondo criteri astratti ma valorizzando le circostanze concrete «sicché essa può sussistere anche in relazione ad una intimidazione psicologica attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase esecutiva».
Il principio – enunciato in una fattispecie nella quale era stato attribuito valore di coercizione psicologica alle reazioni scomposte del marito, percepibili di notte dal figlio convivente e dal vicinato, che avevano ingenerato una situazione di disagio e vergogna tale da indurre la moglie ad accettare rapporti sessuali contro la sua volontà – risulta particolarmente calzante nello specifico ove, quasi specularmente, si incontra una donna, sicuramente sottoposta ad un regime di vessazioni ed umiliazioni di varia natura e, per di più, richiesta con tale insistenza di prestazioni sessuali non gradite da essersi vista costretta, per “proteggersi” a cercare rifugio nella stanza dei propri figli, salvo, poi, esasperata e stanca, finire per accedere alle richieste del marito.
A fronte di una tale realtà, perciò, il marito-imputato non può invocare utilmente un consenso putativo della vittima. Sostenere il contrario, da parte dei ricorrente, equivale ad ignorare del tutto l’accertato regime di maltrattamenti cui egli stesso aveva sottoposto la propria moglie tanto è vero che, in situazione analoga, la Corte di Cassazione (Sez. III, 7/03/2006, n. 16292) ha asserito che non ha valore scriminante il fatto che la moglie non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della propria vittima, aveva la consapevolezza dei rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali. Ad ogni buon conto, giova anche ricordare che, nel reato de quo, la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie, con il risultato che l’errore sul dissenso si sostanzia in un errore inescusabile sulla legge penale e l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile (Cass., Sez. III, 10.3.11, n. 17210).
(Corte di Cass., Sez. III, n. 42993/2015)