Il diritto di cronaca e il diritto di critica, espressione entrambi della libera manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelata, presentano differenze che si riflettono sui limiti della scriminante.
Il diritto di cronaca si concretizza nell’esposizione di fatti che presentano interesse per la generalità, allo scopo di informare i lettori. Il diritto di critica, diversamente, consiste nell’apprezzamento e nella valutazione di fatti, nell’espressione di un consenso o di un dissenso rispetto ad una certa analisi.
Queste differenze si riflettono sulle condizioni che legittimano l’esercizio dei rispettivi diritti.
Per il legittimo esercizio del diritto di cronaca, la giurisprudenza ha individuato tre condizioni: a) la verità della notizia pubblicata; b) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); c) la correttezza formale nell’esposizione (c.d. continenza) (cfr., per es., Cass. 25 maggio 2000, n. 6877; Cass. 4 luglio 1997, n. 41; Cass. 5 maggio 1995, n. 54871).
La critica, proprio in quanto consiste nella manifestazione di un’opinione, non può che essere soggettiva e corrispondente al punto di vista di chi la esprime. Conseguentemente i giudizi critici non possono essere suscettibili di valutazioni che pretendano di ricondurli a verità oggettiva (cfr., per es., Cass. n. 659/1996; Cass. pen., n. 6493/1993; Cass. pen. n. 11211/1993; Cass. pen., n. 935/1999; Cass. pen. n. 3477/2000). Inoltre, il diritto di esprimere dissensi può comportare che la contrapposizione di idee si manifesti anche in modo aspro, in relazione a fatti compiuti o a giudizi espressi da altri (cfr. Cass. n. 54871/1995).
Peraltro, anche nella valutazione dell’esercizio del diritto di critica giornalistica, pur dovendosi riconoscere limiti più ampi rispetto a quelli fissati per il diritto di cronaca, deve ricercarsi un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con l’interesse a che non siano introdotte limitazioni alla formazione del pensiero costituzionalmente garantita.
Questo bilanciamento viene operato dalla giurisprudenza di legittimità prevedendo per il legittimo esercizio del diritto di critica, oltre alla sussistenza della rilevanza sociale dell’argomento, la correttezza di espressione (v. per es. Cass. pen. n. 6548/1998; Cass. pen. n. 935/1999; Cass. pen. n. 3477/2000), la quale impone che la critica si esprima in termini formalmente misurati, e in modo tale da non trascendere in attacchi e aggressioni personali diretti a colpire sul piano morale la figura del soggetto criticato (Cass. n. 13685/2001; Cass. pen. n. 3477/2000).
La distinzione sopra fatta tra diritto di critica e diritto di cronaca è schematica, poiché nella pratica si verifica che la esposizione di fatti determinati (cronaca) sia resa insieme alle opinioni (critica) di chi la compie, in modo da costituire allo stesso tempo esercizio di cronaca e di critica. In questi casi, in relazione a ciascun contenuto espressivo vanno applicati i corrispondenti e diversi limiti scriminanti che sono propri della cronaca e della critica (Cass. civ. n. 11470/2004). A meno che l’interprete non ritenga, con congrua motivazione, che l’articolo, valutato nel suo complesso, sia prevalentemente e significativamente esercizio del diritto di cronaca o di critica, accordando conseguentemente rilievo all’una o all’altra scriminante (v. per es. Cass. pen. n. 6493/1993).
Nel merito, si osserva che lo stabilire se con riferimento ad uno specifico articolo si versi nella cronaca o nella critica è un’attività di qualificazione di fatti e costituisce dunque un giudizio di merito, non censurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato (Cass. n. 841/2015; Cass. n. 11470/2004).
Corte di Cassazione, Sez. III Civile, sentenza 15 dicembre 2015, n. 4897