Decreto Penale di Condanna: messa alla prova

decreto penaleLa Corte Costituzionale, con la sentenza che si riporta in commento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 460, comma 1, lettera e), C.p.P., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova.

L’istituto della messa alla prova, introdotto con gli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater C.p., “ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova”.

L’art. 464-bis, comma 2, C.p.P. stabilisce i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta di messa alla prova. Sono termini diversi, articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti, e la loro disciplina è “collegata alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo”. Nel procedimento per decreto penale, la richiesta deve essere presentata con l’atto di opposizione.

Come negli altri riti, anche nel procedimento per decreto penale deve ritenersi che la mancata formulazione della richiesta nel termine stabilito dall’art. 464-bis, comma 2, C.p.P., e cioè con l’atto di opposizione, determini una decadenza, sicché nel giudizio conseguente all’opposizione l’imputato che prima non l’abbia chiesta non può più chiedere la messa alla prova.

A differenza di quanto accade per gli altri riti speciali, l’art. 460, comma 1, C.p.P. però, tra i requisiti del decreto penale di condanna, non prevede l’avviso all’imputato che ha facoltà, nel fare opposizione, di chiedere la messa alla prova.

Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la richiesta di riti alternativi “costituisce anch’essa una modalità di esercizio del diritto di difesa”.

Di conseguenza si è ritenuto che l’avviso all’imputato della possibilità di richiedere i riti alternativi costituisca “una garanzia essenziale per il godimento di un diritto della difesa”, e che la sanzione della nullità ex art 178, comma 1, lettera e), C.p.P., nel caso di omissione dell’avviso prescritto, trovi «la sua ragione essenzialmente nella perdita irrimediabile della facoltà di chiederli”, se per la richiesta è stabilito un termine a pena di decadenza.

In particolare, quando il termine entro cui chiedere i riti alternativi è anticipato rispetto alla fase dibattimentale, sicché la mancanza o l’insufficienza del relativo avvertimento può determinare la perdita irrimediabile della facoltà di accedervi, “la violazione della regola processuale che impone di dare avviso all’imputato della sua facoltà comporta la violazione del diritto di difesa”. Non è invece necessario alcun avvertimento quando il termine ultimo per avanzare tale richiesta viene a cadere “all’interno di una udienza a partecipazione necessaria, sia essa dibattimentale o preliminare, nel corso della quale l’imputato è obbligatoriamente assistito dal difensore”.

Poiché nel procedimento per decreto penale il termine entro il quale chiedere la messa alla prova è anticipato rispetto al giudizio, e corrisponde a quello per proporre opposizione, la mancata previsione tra i requisiti del decreto penale di condanna di un avviso, come quello previsto dall’art. 460, comma 1, lettera e), C.p.P. per i riti speciali, della facoltà dell’imputato di chiedere la messa alla prova comporta una lesione del diritto di difesa e la violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost. 

CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA N. 201 ANNO 2016

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