La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la sussistenza del diritto di critica politica in relazione ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito.
In punto di diritto va premesso che la sussistenza dell’esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto di critica (Cass., Sez. 5, n. 3047 del 13/12/2010); l’esercizio del diritto in parola consente l’utilizzo di espressioni forti ed anche suggestive al fine di rendere efficace il discorso e richiamare l’attenzione di chi ascolta.
In via generale, in tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, la giurisprudenza di legittimità si esprime ormai in termini consolidati nell’individuare i requisiti caratterizzanti nei requisiti dell’interesse sociale, della continenza del linguaggio e della verità del fatto narrato e in tale ottica ha evocato il parametro della attualità della notizia: nel senso cioè che una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione è vista nell’interesse generale alla conoscenza del fatto ossia nella attitudine della notizia a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che ognuno possa fare liberamente le proprie scelte, nel campo della formazione culturale e scientifica (tra le ultime, Cass., Sez. 5, n. 39503 del 11/05/2012).
Con riferimento specifico al diritto di critica politica, però, si osserva che il rispetto della verità del fatto assume rilievo limitato, necessariamente affievolito rispetto alla diversa incidenza sul versante del diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Cass., Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010). Tale affermazione trova eco in una recente decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, Sez. 2, 27/11/2012, Mengi v. Turkey, p.49), che distingue tra “giudizi di fatto” e di “valore“, laddove mentre l’esistenza del fatto può essere soggetta a prova, il giudizio di valore non può esserlo, poiché la richiesta di dimostrare la verità di un giudizio di valore determina un evidente effetto dissuasivo sulla libertà di informare.
Il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è, pertanto, costituito dal fatto che la questione trattata sia di interesse pubblico e che comunque non si trascenda in gratuiti attacchi personali (Cass., Sez. 5, n. 4031 del 30/10/2013; Cass., Sez. 5, n. 8824 del 01/12/2010). Ove il giudice pervenga, attraverso l’esame globale del contesto espositivo, a qualificare quest’ultimo come prevalentemente valutativo, i limiti dell’esimente sono costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di espressione (Cass., Sez. 5, n. 2247 del 02/07/2004; Cass., Sez. 1, n. 23805 del 10/06/2005).
Va poi tenuto conto della perdita di carica offensiva di alcune espressioni nel contesto politico, in cui la critica assume spesso toni aspri e vibrati e del fatto che la critica può assumere forme tanto più incisive e penetranti quanto più elevata è la posizione pubblica del destinatario (Cass., Sez. 5, n. 27339 del 13/06/2007): ciò vale a dire che il livello e l’intensità, pur notevoli delle censure indirizzate a mò di critica a coloro che occupano posizioni di tutto rilievo nella vita pubblica, non escludono l’operatività della scriminante, poiché nell’ambito politico risulta preminente l’interesse generale al libero svolgimento della vita democratica (Cass., Sez. 5, n. 15236 del 28/01/2005).
Di conseguenza quanto maggiore è il potere esercitato, maggiore è l’esposizione alla critica, perché chi esercita poteri pubblici deve essere sottoposto ad un rigido controllo sia da parte dell’opposizione politica che dei cittadini (Cass., Sez. 5, n. 11662 del 06/02/2007, che ha fatto applicazione del principio con riferimento al giudizio sull’operato di un pubblico ministero, definito “sprovveduto” ed “incauto“, in quanto la figura istituzionale del criticato – magistrato designato alla trattazione dibattimentale ed al coordinamento di indagini di grande rilievo sociale e criminale – rendeva legittima la critica giornalistica).
Tuttavia è sempre necessario che ci si trovi in presenza di critica e non di pure e semplici contumelie o, comunque, di frasi gratuitamente espressive di sentimenti ostili.
Invero, in una recente decisione della Corte di legittimità, si è rilevato che “il giudizio critico su di un avversario politico può anche essere formulato con parole che – decontestalizzate – costituirebbero meri insulti, ma che, viceversa, riferite a determinate vicende e/o situazioni, possono essere lette come sintetico giudizio negativo sull’operato del predetto avversario“, ma le espressioni offensive devono essere “pronunziate nell’ambito di una polemica politica avente attinenza con il contenuto dell’addebito denigratorio” (Cass., Sez. 5, n. 7626 del 04/11/2011).
Corte di Cassazione n. 48712/2014