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Legge 20 novembre 2017, n. 168

La disciplina della legge n. 168 del 2017, che ha inteso fortemente valorizzare la proprietà collettiva e gli usi civici, in quanto strettamente correlati con la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio (da ultimo, sentenze n. 236 del 2022 e n. 228 del 2021).

La trama assiologica, sottesa alla nuova normativa, viene posta in rilievo sin dall’art. 1, comma 1, che richiama i principi costituzionali, di cui agli artt. 2 e 9 Cost., e implicitamente li collega, tramite il riferimento agli artt. 42, secondo comma, e 43 Cost., alla «funzione sociale» della proprietà e al paradigma della «utilità generale». Al contempo, la ratio ispiratrice della disciplina viene esplicitata, all’art. 2, comma 1, con la definizione dei «beni di collettivo godimento», quali «elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle collettività locali», cui forniscono anche «fonti di risorse rinnovabili», e quali «componenti […] del sistema ambientale» e del paesaggio, nella sua triplice dimensione «agro-silvo-pastorale», il che palesa la loro vocazione a salvaguardare il «patrimonio culturale e naturale» (art. 2, comma 1).

La legge n. 168 del 2017 si pone, dunque, in linea con la disciplina che, sin dal 1985, ha voluto preservare le «aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici», apponendo sulle stesse un vincolo paesaggistico (art. 1, primo comma, lettera h, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante «Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale», convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1985, n. 431, poi riprodotto nell’art. 142, comma 1, lettera h, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante «Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137»).

Al contempo, la nuova normativa si colloca nel solco già tracciato dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha ritenuto di valorizzare le «numerose forme, molteplici e diverse […] di godimento […] di un bene fondiario da parte dei membri di una comunità» (sentenza n. 228 del 2021), in virtù del loro collegamento con l’ambiente e col paesaggio (sentenze n. 153, n. 152 e n. 151 del 1986 e, da ultimo, n. 236 del 2022, n. 228 del 2021, n. 71 del 2020, n. 178 e n. 113 del 2018, n. 103 del 2017).

In particolare, la legge n. 168 del 2017 ha dato, per un verso, specifico risalto all’interesse collettivo, assegnando la titolarità dei diritti di uso civico sia in re propria sia in re aliena alle collettività, per il tramite di enti esponenziali di diritto privato, giungendo a configurare come «comproprietà inter-generazionale» (art. 1, comma 1, lettera c) proprio quel paradigma della proprietà collettiva, che aveva animato il dibattito nell’Assemblea costituente (specie nella terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, sedute del 25 e 27 settembre 1946).

Per un altro verso, la nuova legge ha esteso il campo applicativo del vincolo paesaggistico, e con esso la conformazione della proprietà privata, traendo ulteriori conseguenze dalla relazione fra usi civici e interesse paesistico-ambientale.

L’art. 3, comma 6, della legge n. 168 del 2017 dispone, infatti, che il vincolo paesaggistico «è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici».

In aggiunta, l’art. 3, comma 8-quater, sempre della legge n. 168 del 2017 (ivi introdotto, di recente, in sede di conversione del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, recante «Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure», nella legge 29 luglio 2021, n. 108) ha stabilito che i terreni sdemanializzati, a seguito delle permute fra domini collettivi e terreni del patrimonio disponibile dei comuni, delle regioni o delle Province autonome di Trento e di Bolzano, preservano «il vincolo paesaggistico».

In sostanza, in base alla disciplina prevista dall’art. 142, comma 1, lettera h), cod. beni culturali, il vincolo paesaggistico impedisce che siano apportate al terreno modifiche tali da determinare un pregiudizio alla conservazione degli usi civici, sul presupposto che la loro protezione incarni il valore paesaggistico difeso (art. 146, comma 1, cod. beni culturali).

Con la nuova legge n. 168 del 2017, che salvaguarda il vincolo paesaggistico anche sulle terre liberate dagli usi civici e sulle terre sdemanializzate (art. 3, commi 6 e 8-quater), il legislatore assegna al citato vincolo la funzione di preservare, ove e per quanto possibile, quei profili del paesaggio, che in precedenza erano garantiti dalla presenza degli usi civici e del demanio civico.

La disposizione relativa al mantenimento del vincolo paesaggistico, anche a seguito della liquidazione degli usi civici (il già evocato art. 3, comma 6), è proprio quella che si fa carico – almeno in parte – della necessità di un coordinamento fra la legge n. 168 del 2017 e la precedente legge n. 1766 del 1927, con il relativo regolamento attuativo.

Specie in virtù della citata previsione viene, infatti, confermata – come anche questa Corte ha più volte sottolineato (sentenze n. 236 del 2022, n. 228 del 2021, n. 178 del 2018 e n. 103 del 2017) – la persistente vigenza della pregressa disciplina, che pure era animata da una differente ispirazione ideologica. Tale normativa presenta, in particolare, complesse intersezioni con profili implicati nell’odierna questione.

Da un lato, la legge n. 1766 del 1927 regola, per l’appunto, il meccanismo della liquidazione, cui la norma censurata fa implicito richiamo, là dove si riferisce alla proprietà privata gravata da usi civici «non ancora liquidati» (art. 3, comma 1, lettera d, cui fa rinvio l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017).

Da un altro lato, la medesima legge del 1927 e il relativo regolamento disciplinano il regime dei beni, che è proprio il profilo sul quale si appuntano le odierne censure. Nello specifico, queste ultime traggono origine da una disposizione – l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 – che implicitamente richiama la precedente normativa, là dove afferma che il regime dei beni «resta» quello della inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità e perpetua destinazione.

Ebbene, la legislazione dell’inizio del secolo scorso, di cui viene confermata la persistente vigenza, era inizialmente imperniata sull’obiettivo di superare le latenti conflittualità del mondo produttivo agrario (sentenza n. 236 del 2022). A tal fine, la disciplina si proponeva un’opera di riordino della materia (obiettivo evocato dalla stessa rubrica della legge), vòlta, per un verso, a dirimere i rapporti fra proprietà privata e usi civici e, per un altro, rispetto ai fondi assegnati ai comuni e alle associazioni, a «contempera[re] i bisogni della popolazione con quelli della conservazione del patrimonio boschivo e pascolivo nazionale», come recita l’art. 14 della legge n. 1766 del 1927 (e come sottolinea la sentenza n. 391 del 1989, che in tale profilo ravvisa in nuce una iniziale attenzione all’ambiente).

Nel perseguire i citati obiettivi, la legge del 1927 si avvale della basilare dicotomia fra iura in re aliena, gli usi civici che gravano sulla proprietà privata, e iura in re propria, il demanio civico.

Nell’ottica della disciplina del 1927 gli usi civici in re aliena sono destinati a procedimenti di liquidazione, affidati, a loro volta, a regole che definiscono i rapporti fra proprietà privata e interesse collettivo, tramite tre modalità: la liquidazione per scorporo, attuata attraverso l’attribuzione «in compenso dei diritti civici» di una porzione del terreno (artt. 5 e 6); quella effettuata con il pagamento di un canone annuo di natura enfiteutica in misura corrispondente al valore dei diritti, ove i terreni abbiano ricevuto «sostanziali e permanenti migliorie» o si tratti di «piccoli appezzamenti non aggruppabili in unità agrarie» (art. 7, primo comma); e – nel caso delle ex province pontificie – la liquidazione tramite affrancazione invertita, che consente, dietro pagamento di un canone a favore del proprietario e a particolari condizioni, di attribuire l’intero fondo al dominio (art. 7, secondo comma).

Anche a seguito dell’introduzione della legge n. 168 del 2017 permane il meccanismo liquidatorio, tant’è che a esso fanno implicito riferimento sia il comma 1, lettera d), sia il comma 6 dell’art. 3, ma – come si è già anticipato (punto 8.1.) – proprio quest’ultima disposizione introduce un elemento innovativo, quello della permanenza del vincolo paesaggistico, che continua a conformare la proprietà privata pur se liberata dagli usi civici.

Quanto al regime dei beni, la legge n. 1766 del 1927 non assoggetta ad alcuna particolare regolamentazione la proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati.

Per converso, la legge del 1927 si occupa del regime dei terreni che sono oggetto dei diritti in re propria – quelli che sono tali ab initio o che derivano dai citati procedimenti di liquidazione – e lo fa tramite una disciplina che trae origine dall’ulteriore distinzione fra: a) terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; b) terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria (art. 11). L’assegnazione alle due categorie di demanio serviva, appunto, a contemperare le esigenze di «conservazione del patrimonio boschivo e pascolivo nazionale» con i «bisogni della popolazione» (art. 14).

Per la prima categoria di beni l’art. 12, comma 2, della legge n. 1766 del 1927 introduce un regime di alienabilità condizionata all’autorizzazione del «Ministero dell’economia nazionale» e di immutabilità della destinazione.

Per la seconda tipologia di beni, la legge n. 1766 del 1927 delinea, invece, un meccanismo di ripartizione del terreno in unità fondiarie (art. 13), con loro attribuzione alle famiglie di coltivatori a titolo di enfiteusi (art. 19) e con l’obbligo di apportare migliorie che condizionano la possibile affrancazione del fondo (art. 21). E, proprio relativamente alla fase antecedente all’affrancazione, la legge stabilisce che le unità fondiarie non possano «essere divise, alienate o cedute per qualsiasi titolo» (art. 21, comma 3).

Infine, il regime dei beni assegnati ai comuni e alle associazioni si completa, nella normativa antecedente alla legge n. 168 del 2017, con le disposizioni del regolamento attuativo (il r.d. n. 332 del 1928) della legge n. 1766 del 1927, che introducono talune deroghe. In particolare, l’art. 39, primo comma, del regolamento prevede la possibile autorizzazione all’alienazione «di quei fondi che per le loro esigue estensioni non si prestano a qualsiasi forma di utilizzazione prevista dalla legge», mentre l’art. 41 si riferisce alla eventuale richiesta al «Ministro dell’economia» dell’autorizzazione a una diversa destinazione dei citati beni «quando essa rappresenti un reale beneficio per la generalità degli abitanti».

La bipartizione fra iura in re aliena e iura in re propria, che domina la legge n. 1766 del 1927 e il relativo regolamento, permane anche nella legge n. 168 del 2017, la quale si sofferma, all’art. 3, proprio sul regime dei beni, che è il profilo sul quale si appuntano – sotto la particolare angolatura del regime della proprietà privata gravata dagli usi civici in re aliena – le odierne censure.

L’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 dispone che «[i]l regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale».

L’art. 3, comma 1, cui si riferisce il citato rinvio, qualifica, a sua volta, come beni collettivi sei tipologie di beni immobili. Cinque categorie, indicate alle lettere a), b), c), e), ed f), compongono, ai sensi dell’art. 3, comma 2, «il patrimonio antico dell’ente collettivo, detto anche patrimonio civico o demanio civico», e sono dunque di proprietà della collettività (iura in re propria). La sesta, indicata alla lettera d), si riferisce invece alle «terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati» (iura in re aliena).

Innanzitutto, risalta, nell’art. 3, comma 3, l’utilizzo del verbo «resta», che evoca una linea di continuità fra la disciplina relativa al regime dei beni antecedente alla legge n. 168 del 2017 e quella introdotta da quest’ultimo testo normativo.

In particolare, se a tale espressione si potesse attribuire un significato così pregnante da richiamare non solo un regime dei beni già presente nel precedente assetto normativo, ma anche il mantenimento del medesimo ambito applicativo di quel regime, se ne potrebbe inferire l’estraneità della proprietà privata gravata dagli usi civici in re aliena rispetto alla inalienabilità disposta dall’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017.

Come si è già anticipato, infatti, sia la legge n. 1766 del 1927, sia il relativo regolamento attuativo disciplinano soltanto il regime dei beni assegnati ai comuni e alle associazioni. Coerentemente, tanto la giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 71 del 2020, n. 178 del 2018, n. 113 del 2018 e n. 103 del 2017), quanto i giudici di legittimità (di recente, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 10 maggio 2023, n. 12570; sezione terza civile, sentenza 28 settembre 2011, n. 19792) hanno sempre riferito al demanio civico quel particolare regime dei beni, che viene ritenuto sostanzialmente assimilabile a quello demaniale.

Dal silenzio della citata normativa circa il regime della proprietà privata gravata dagli usi civici non ancora liquidati, gli interpreti hanno, dunque, pacificamente inferito che non vi fossero, viceversa, limiti alla circolazione inter vivos e mortis causa di detta proprietà, che si trasmette con l’uso civico inerente al fondo e (come detto, a partire dal 1985) con il vincolo paesaggistico. In questi termini si sono espressi, anche di recente, i giudici di legittimità che, nell’ambito della già citata sentenza, pronunciata a sezioni unite (sentenza 10 maggio 2023, n. 12570), sulla questione della sdemanializzazione dei demani collettivi in vista di una procedura di espropriazione per pubblica utilità, hanno chiaramente differenziato il regime del demanio civico da quello della proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati.

Tuttavia, benché sia evidente che la disciplina antecedente al 2017 escludesse per la proprietà privata un regime di inalienabilità, non può ritenersi sufficiente fare perno sul mero ricorso all’espressione «resta», utilizzata dall’art. 3, comma 3, per affermare in via interpretativa che la proprietà privata possa ancora, dopo l’introduzione della legge n. 168 del 2017, liberamente circolare.

Ostano a tale conclusione due ragioni.

La prima si rinviene nel dato testuale dell’art. 3, comma 3, che opera un rinvio inequivoco a tutte le previsioni dell’art. 3, comma 1, fra le quali rientra la lettera d), che espressamente fa riferimento alle «terre di proprietà di soggetti […] privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati».

In particolare, è di assoluta evidenza il differente tenore letterale che presenta l’art. 3, comma 3, il quale rinvia tout court ai beni di cui al comma 1, rispetto alla formulazione dell’art. 3, comma 2, che invece esclude espressamente dal rinvio al comma 1 la sola lettera d), quella che, per l’appunto, ricomprende anche la proprietà privata gravata da usi civici non liquidati.

La seconda ragione è che, pur se un regime analogo a quello previsto dall’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 si desume dalla precedente disciplina con riguardo ai diritti di uso civico in re propria, tuttavia, dal confronto tra le disposizioni della legge n. 1766 del 1927 (nonché quelle del r.d. n. 332 del 1928) e la nuova normativa introdotta dall’art. 3, commi 3, 8-bis e seguenti, della legge n. 168 del 2017, emergono, finanche rispetto al demanio civico, taluni tratti innovativi. E questi, oltre a richiedere un coordinamento con la pregressa disciplina, certamente si riverberano sul peso ermeneutico dell’espressione «resta».

Tale locuzione non può, dunque, da sola prevalere sull’altro chiaro indice testuale, costituito dal riferimento dell’art. 3, comma 3, al complesso delle previsioni di cui all’art. 3, comma 1, fra le quali è presente la lettera d), che ascrive ai beni collettivi la proprietà privata sulla quale gravano gli usi civici non ancora liquidati.

E proprio con riguardo all’art. 3, comma 1, si impone, infine, un’ultima considerazione quanto al contenuto della norma censurata.

Deve, infatti, constatarsi che, nella fattispecie degli usi civici in re aliena, il medesimo bene è oggetto sia del diritto di proprietà, che qui non è collettiva, bensì pubblica o privata, sia del diritto collettivo di uso civico. Al contempo, è di palmare evidenza che i diritti di uso civico, per la loro stessa natura e per il loro contenuto, assegnano ai componenti della collettività facoltà di godimento promiscuo, non suscettibili di divisioni, che spettano ai singoli uti cives in ragione della loro appartenenza alla comunità, il che rende tali diritti incompatibili con una cessione o con un acquisto a titolo di usucapione.

Nondimeno non può ritenersi che l’art. 3, comma 1, riferendosi alla nozione di beni collettivi, abbia inteso disciplinare unicamente i tratti propri del solo diritto collettivo.

Vero è che normalmente il regime dei beni viene associato alla titolarità del diritto di proprietà, tant’è che la stessa dicotomia costituzionale fra proprietà pubblica e privata (art. 42, primo comma, Cost.) sottende una diversificazione dei rispettivi regimi, correlata prevalentemente alla titolarità del diritto dominicale.

Tuttavia, proprio il dato testuale dell’art. 3, comma 1, fa emergere la diversa scelta del legislatore di intendere quale fattore qualificante del regime del bene, e di riflesso della proprietà, non la titolarità del diritto, bensì la destinazione del bene; non a caso, nell’ambito della lettera d), dell’articolo appena citato, perde di rilevanza la stessa distinzione fra proprietà pubblica e privata, venendo entrambe le nozioni attratte nel regime dei beni collettivi.

In sostanza, dove l’art. 3, comma 1, lettera d), qualifica come beni collettivi le terre di proprietà privata e attribuisce a tali beni, in virtù del comma 3, il regime di inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità e perpetua destinazione, non intende affatto riferirsi al solo contenuto e ai tratti tipici dei diritti di uso civico, ma vuole specificamente rivolgersi alla proprietà privata, plasmando il suo regime sulle esigenze della destinazione impressa sul bene dalla presenza del diritto collettivo.

Conclusivamente il tenore letterale dell’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017, nel suo coordinamento con il comma 1, e la ratio che si inferisce dal complesso della nuova disciplina comprovano che la proprietà privata gravata da usi civici non ancora liquidati sia “divenuta” inalienabile in forza di una norma avente carattere innovativo rispetto alla precedente disciplina.

CORTE COSTITUZIONALE sentenza n. 119 del 2023

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