La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento analizza la questione inerente l’ esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato il principio dell’obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 C.c.. Il lavoratore, pertanto, deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art.2105 C.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso .
E’ stato altresì evidenziato come il diritto di critica debba rispettare il principio della continenza sostanziale (secondo cui i fatti narrati devono corrispondere a verità) e quello della continenza formale (secondo cui l’esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente), precisandosi al riguardo che, nella valutazione del legittimo esercizio del diritto di critica, il requisito della continenza c.d. formale, comportante anche l’osservanza della correttezza e civiltà delle espressioni utilizzate, è attenuato dalla necessità, ad esso connaturata, di esprimere le proprie opinioni e la propria personale interpretazione dei fatti, anche con espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite.
Occorre, pertanto, ricercare un bilanciamento dell’interesse che si assume leso con quello a che non siano introdotte limitazioni alla libera formazione del pensiero costituzionalmente garantito.
Sulla scia degli esposti principi, è stato altresì rimarcato che l’ esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l’impresa.
La giurisprudenza di legittimità ha, altresì, escluso che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell’azienda possa integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi.
Corte di Cassazione Civile Sent. Sez. L Num. 17735 Anno 2017