La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la sussistenza del reato di diffamazione a seguito di un esposto disciplinare indirizzato ad organi di disciplina contenente espressioni denigratorie, previa verifica dei requisiti della pertinenza, continenza e veridicità di quanto prospettato.
Secondo il consolidato orientamento di legittimità, in tema di diffamazione realizzata mediante esposti indirizzati ad organi di disciplina o, in genere, mediante osservazioni finalizzate all’esercizio di poteri di controllo e verifica, integra il reato – sotto il profilo materiale – la condotta di colui che invii comunicazioni gratuitamente denigratorie, considerato che la destinazione alla divulgazione può trovare il suo fondamento, oltre che nella esplicita volontà del mittente-autore, anche nella natura stessa della comunicazione, in quanto propulsiva di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo, disciplinare) che deve essere portato a conoscenza di altre persone, diverse dall’immediato destinatario, sempre che l’autore della missiva prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi (ex multis Cass., Sez. 5, n. 26560 del 29/04/2014).
La destinazione funzionale dell’esposto all’attivazione dei poteri di accertamento e disciplinari dell’organismo destinatario impone la necessaria valutazione della possibile sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 C.p. o della causa di non punibilità ex art. 598 C.p., rilevabili “ex officio” anche in sede di legittimità (Cass., Sez. 5, n. 23222 del 06/04/2011), ricorrendo l’esimente del diritto di critica quando i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorché erroneamente, convinto della loro veridicità.
Nella delineata prospettiva, non integra il delitto di diffamazione la condotta di chi invii una segnalazione, ancorché contenente espressioni offensive, alle competenti autorità, volta ad ottenere un intervento per rimediare ad un illecito disciplinare considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51 C.p., “sub specie” di esercizio del diritto di critica, anche in forma putativa, laddove l’agente abbia esercitato il diritto di critica ed assolto l’onere di deduzione di fatti nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi ai fini richiesti (Cass., Sez. 5, n. 1695 del 14/07/2014; Sez. 5, n. 42576 del 20/07/2016; n. 33994 del 2010; n. 23222 del 2011; n. 26560 del 2014, in tema di esposti finalizzati ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche).
In tal senso, il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto della prospettazione critica ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto alle censure espresse e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla prospettazione di una violazione, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi.
In particolare, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione (Cass., Sez. 5, n. 4853 del 18/11/2016) ed alla sede dell’esternazione, che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione.
Corte di Cassazione, Sez. V, sent. 11 marzo 2021, n. 9803