La Suprema Corte di Cassazione affronta la questione relativa alla competenza ad irrogare la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente ex art. 186, comma 2-bis, C.d.S. allorquando, constatato l’esito favorevole della messa alla prova, introdotta anche per i maggiorenni dalla L. n. 67/2014, il giudice procedente abbia a dichiarare l’improcedibilità per intervenuta estinzione del reato.
Nessun dubbio, sussiste, che la sanzione amministrativa de qua vada applicata. Il legislatore del 2014, si è preoccupato, infatti, con il L. n. 67/2014, art. 3, comma 11, di inserire nel Codice Penale l’art. 168-ter che, al comma 2, prevede espressamente che l’estinzione del reato per l’esito positivo della messa alla prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie ove previste dalla legge.
Si tratta, peraltro, di una previsione necessaria, in quanto il nuovo istituto della messa alla prova, che può essere fatto rientrare, a pieno titolo, nella cause di estinzione del reato si caratterizza, tuttavia, per la sua connotazione di strumento di composizione preventiva e pregiudiziale del conflitto penale. Non prevede un preventivo accertamento di penale responsabilità.
Ne consegue che, nel caso della sanzione amministrativa della revoca della patente, la competenza all’irrogazione della stessa all’esito della positiva “messa alla prova” e dell’estinzione del reato, vada individuata, ai sensi dell’art. 224 C.d.S., comma 3, in capo al Prefetto.
La norma in questione prevede, infatti, testualmente, che: “La declaratoria di estinzione del reato per morte dell’imputato importa l’estinzione della sanzione amministrativa accessoria. Nel caso di estinzione del reato per altra causa, il prefetto procede all’accertamento della sussistenza o meno delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria e procede ai sensi degli articoli 218 e 219 nelle parti compatibili. L’estinzione della pena successiva alla sentenza irrevocabile di condanna non ha effetto sulla applicazione della sanzione amministrativa accessoria“.
Non deve trarre in inganno la diversa previsione di cui agli artt. 186 C.d.S., comma 9-bis e art. 187 C.d.S., comma 8-bis, sebbene vi siano indubbi punti di contatto nelle modalità (il lavoro di pubblica utilità) e nell’esito (l’estinzione del reato) con il nuovo istituto della messa alla prova.
L’art. 168-bis C.p., comma 2, delinea i contenuti del regime di messa alla prova, conferendo rilievo prioritario alle condotte riparative: “prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato“. A tali condotte si associa l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma.
La messa alla prova “può implicare, tra l’altro” lo svolgimento di attività di volontariato sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. Costituisce invece presupposto indefettibile del nuovo istituto la prestazione di lavoro di pubblica utilità (“la concessione della messa alla prova è (…) subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità”). E di tale prestazione lavorativa l’art. 168-bis C.p., comma 3, offre una definizione mutuata da quelle già contenute in disposizioni vigenti che contemplano la misura quale pena sostitutiva (D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 54, in tema di competenza penale del giudice di pace; art. 186 C.d.S., comma 9-bis e art. 187 C.d.S., comma 8-bis) o quale obbligo correlato alla sospensione condizionale della pena (art. 165 C.p.).
Si tratta di prestazioni non retribuite in favore della collettività, affidate tenendo conto “delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell’imputato“, articolate secondo un orario giornaliero non superiore alle otto ore, da svolgere per non meno di dieci giorni, anche non continuativi, e da modulare in termini compatibili con le esigenze di lavoro, di studio di famiglia e di salute dell’imputato.
La centralità del lavoro gratuito nell’economia della misura è confermata dalla previsione dell’art. 168-quater C.p., che individua il rifiuto opposto dall’imputato “alla prestazione del lavoro di pubblica utilità” come autonoma causa di revoca anticipata e da quella del nuovo art. 464-bis C.p., comma 4, lett. b), che indica “le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale” tra i contenuti obbligatori del programma di trattamento che l’imputato deve allegare all’istanza di ammissione; e anche dal disposto del nuovo art. 141-ter disp. att. C.p.P., che coniuga all’indicativo la previsione, tra gli allegati che devono corredare il programma di trattamento da sottoporre al giudice in vista dell’ammissione della misura, l’adesione dell’ente “presso il quale l’imputato è chiamato a svolgere le proprie prestazioni”.
Dunque la previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilità costituisce il profilo sanzionatorio di maggior rilievo della nuova misura, quello che esprime la sua “necessaria componente afflittiva”, secondo quanto si evince dai lavori preparatori della L. n. 67 del 2014.
Tuttavia, la finalità della messa alla prova, introdotta dall’art. 168-bis C.p., appare essere quella di composizione preventiva e “pregiudiziale” del conflitto penale, non presupponendo la sua applicazione la pronuncia di una sentenza di condanna.
In tale prospettiva si coglie appieno la distinzione con l’istituto disciplinato dal comma 9-bis dell’art. 186 C.d.S., e dal comma 8-bis dell’art. 187 C.d.S., i quali pur potendo consentire di pervenire alla finale estinzione del reato presuppongono il passaggio necessario attraverso l’inflizione all’imputato di una condanna, la cui pena viene poi convertita nella forma alternativa di espiazione, data dal lavoro di pubblica utilità.
In altri termini, per l’applicazione della previsione contenuta nel comma 9-bis dell’art. 186 C.d.S., e nel comma 8-bis dell’art. 187 C.d.S., si impone l’accertamento della responsabilità dell’imputato, tramite la celebrazione del giudizio in forma dibattimentale, del rito abbreviato, con l’applicazione di pena ex art. 444 C.p.P. o anche con decreto penale di condanna non opposto.
Al positivo esito del lavoro di pubblica utilità, si verifica, pertanto, l’ estinzione del reato. Peraltro, nel caso dello svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità ex art. 186 C.d.S., comma 9-bis, ed ex art. 187 C.d.S., comma 8-bis si produce un effetto favorevole anche sull’entità della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, che viene, con sentenza emessa dal giudice procedente in un’udienza da fissarsi ad hoc, ed è ridotta della metà (“il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato”).
La sostanziale differenza degli istituti, l’uno (quello relativo alla messa alla prova) che prescinde dall’accertamento di una penale responsabilità e gli altri (quelli di cui agli artt. 186 C.d.S., comma 9-bis e art. 187 C.d.S., comma 8-bis) in cui il lavoro di pubblica utilità da svolgersi è sanzione sostitutiva di un’irrogata pena conseguente ad un’affermazione di penale responsabilità, induce dunque a ritenere che non possa trovare applicazione nel caso che ci occupa la procedura prevista dell’art. 186 C.d.S., comma 9-bis e art. 187 C.d.S., comma 8-bis, che lascia al giudice, in deroga alla previsione generale di cui al citato art. 224 C.d.S., comma 3, la competenza, previa fissazione di apposita udienza, a statuire la sanzione amministrativa della sospensione della patente.
In difetto di assimilabilità dell’istituto all’odierno esame a quello di cui all’art. 186 C.d.S., comma 9-bis e art. 187 C.d.S., comma 8-bis, si torna dunque alla previsione di carattere generale di cui all’art. 224 C.d.S., comma 3- bis che individua la competenza nel Prefetto.
Tale conclusione, peraltro, si pone in continuità con le condivisibili conclusioni cui in passato era pervenuta la Corte di legittimità in relazione all’estinzione del reato per intervenuta oblazione.
In quei casi si era affermato che il giudice penale, che aveva dichiarato l’estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2, per intervenuta oblazione, non poteva applicare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, rimessa, ai sensi dell’art. 224 C.d.S., comma 3, al Prefetto, che avrebbe dovuto procedere all’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della predetta sanzione, richiamandosi agli artt. 218 e 219 C.d.S., nelle parti compatibili.
Una conclusione siffatta è coerente anche con la previsione di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2, che vuole che la sanzione amministrativa accessoria segua “l’accertamento del reato”.
Peraltro, il secondo comma dell’art. 221 C.d.S. prevede espressamente l’ipotesi di definizione del processo penale “per estinzione del reato o per difetto di una condizione di procedibilità”, nel qual caso la competenza del giudice penale in ordine all’applicazione della sanzione amministrativa viene espressamente a cessare perchè lo prevede la stessa disposizione di legge.
Se ne trae la conclusione che il giudice il quale pronunci sentenza di intervenuta estinzione del reato ex artt. 168-ter C.p., comma 2, e 464-septies C.p.P., per positivo esito della messa alla prova, non può e non deve applicare la sanzione amministrativa accessoria, che verrà poi applicata dal Prefetto competente.
Corte di Cassazione Sent. Num. 6627 Anno 2017