La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente l’integrazione del delitto di atti persecutori attraverso foto e filmati postati su un profilo Facebook.
Invero, la creazione di un profilo Facebook dai contenuti fortemente denigratori in danno della parte offesa può rappresentare una delle modalità con cui si estrinseca la condotta persecutoria, una condotta idonea ad integrare il reato di cui all’art.612 bis C.p.
Nel caso di specie, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, è stata correttamente ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando la sua astratta idoneità a causare l’evento, in ossequio alla costante giurisprudenza di legittimità, fra cui, da ultimo Cass., Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017.
Va premesso che le dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.
Nel caso di specie l’attendibilità della persona offesa è stata valutata anche in considerazione della presenza di riscontri alle sue accuse, quali la visione del profilo Facebook. La ritenuta credibilità della parte offesa ha indotto a ritenere provato anche il mutamento delle abitudini di vita da lei riferito, consistito nel cambiamento di lavoro, nella decisione di non frequentare più certi luoghi, di non uscire sola.
Va, comunque, osservato che la giurisprudenza ammette che messaggi o filmati postati sui social network integrino l’elemento oggettivo del delitto di atti persecutori (Cass., Sez. 6, n. 32404 del 16/07/2010) e l’attitudine dannosa di tali condotte non è, ai fini che ci occupano, tanto quella di costringere la vittima a subire offese o minacce per via telematica, quanto quella di diffondere fra gli utenti della rete dati, veri o falsi, fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa.
Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenza 28 dicembre 2017, n. 57764